Le navi militari invece delle prigioni segrete della Cia. Sembra questa la strategia adottata dall’amministrazione di Barack Obama per aggirare le proteste dei gruppi per i diritti civili e processare i terroristi della “guerra al terrore”. Il dato emerge con chiarezza dopo la cattura di Abu Anas al-Libi, in cima alla lista dei ricercati dell’Fbi per il suo presunto ruolo negli attentati contro le ambasciate Usa in Tanzania e Kenya nel 1998 che uccisero 224 persone. Al-Libi, considerato membro di al-Qaeda, su cui pendeva una taglia da 5 milioni di dollari, è stato catturato a Tripoli in un’operazione congiunta di Cia, Fbi e Pentagono, e ora si trova a bordo della USS San Antonio dove è in corso il suo interrogatorio. Il caso in queste ore provoca un forte attrito diplomatico tra Stati Uniti e Libia, il cui governo lamenta di non essere stata avvertito del blitz delle forze Usa. Dietro lo scontro tra governi, si delinea però quello del trattamento e delle garanzie dei detenuti.

Secondo fonti dell’amministrazione, la scelta delle navi come luoghi per interrogare i sospetti è l’esito finale di un processo di ripensamento durato anni. Barack Obama arrivò alla Casa Bianca, nel 2009, con la promessa di chiudere la prigione di Guantanamo e i “black sites” della Cia dove, secondo molte testimonianze, i prigionieri venivano torturati. Si rivelò quasi subito impraticabile l’invio dei presunti terroristi nelle carceri in territorio americano; ipotesi che non piaceva a gran parte dei repubblicani e a diversi democratici, oltre a incontrare le resistenze delle comunità locali. Gli stessi servizi di intelligence sconsigliarono la detenzione sul suolo degli Stati Uniti, dove i prigionieri avrebbero goduto di diritti e immunità ben più ampi rispetto alle “prigioni segrete” della CIA. Per un certo periodo, come alternativa a Guantanamo, funzionò la base militare di Bagram in Afghanistan; ma il peggioramento delle relazioni con il governo di Hamid Karzai e lo sdegno di molti gruppi per i diritti umani hanno progressivamente condotto il governo Usa a svuotare anche quel centro di detenzione.

E’ a questo punto che l’ipotesi delle navi militari, come alternativa ai siti sulla terraferma, è emersa. Dopo la cattura di al-Libi, un team di investigatori di Pentagono, agenzie dell’intelligence e Dipartimento della Giustizia è salito a bordo della San Antonio – che si trovava già nel Mediterraneo nell’ambito del possibile attacco alla Siria – e ha cominciato a interrogare Al-Libi. Da informazioni ricevute da Associated Press, il cittadino libico è detenuto sulla base della “legge di guerra”, ciò che permette di tenere indefinitamente in carcere un sospetto terrorista come “enemy combatant”, quindi senza formalizzare l’accusa e dargli accesso a un avvocato difensore. Ad al-Libi, secondo le stesse fonti, non sono stati neppure letti i “Miranda Rights”, che consentono al prigioniero di restare in silenzio e di chiedere un avvocato. Al momento, non si sa neppure se il libico verrà condotto negli Stati Uniti per un processo regolare.

Dai tempi di George W. Bush, la strategia antiterrorismo Usa è quindi cambiata, ma non per questo è diventata più trasparente o capace di offrire maggiori garanzie ai prigionieri. Questi restano infatti a tutti gli effetti “combattenti nemici”, quindi senza alcun diritto alla difesa e in balia di forme di interrogatorio particolarmente dure. Rispetto agli anni di Bush, la strategia si è però per certi versi perfezionata. Al posto delle “prigioni segrete” della Cia, che si trovavano in territorio straniero, quindi soggette all’evoluzione dei rapporti politici e diplomatici con i governi di altri Paesi e più esposte ai controlli dei gruppi per i diritti umani, le prigioni sono ora su navi che si trovano in acque internazionali. Quello che succede su queste navi è ovviamente molto difficile da monitorare. “Si tratta di una strategia che ci preoccupa seriamente”, ha spiegato Hina Shamsi, avvocato dell’“American Civil Liberties Union”.

L’uso di navi militari come luoghi di detenzione per presunti terroristi risale alla cattura, nel 2011, di Ahmed Abdulkadir Warsame, un cittadino somalo sospettato di legami con al-Qaida. Dopo due mesi di interrogatorio su una nave, Warsame è stato trasferito a New York per essere processato. Le informazioni ottenute dagli investigatori prima della lettura dei suoi diritti non potranno essere utilizzate durante il processo, ma secondo la Cia sono state comunque essenziali per colpire le reti di al-Qaeda nello Yemen e i rapporti con i militanti Shabaab in Somalia. Da notare che il team che interrogò Warsame è lo stesso che è entrato in azione in queste ore con al-Libi. Il suo nome è “High-Value Detainee Interrogation Group” (HIG) e risponde al National Security Council.

Creato dall’amministrazione Obama nel 2009 con elementi provenienti da Fbi, Cia, Pentagono e diverse altre agenzie di intelligence, il gruppo ha lavorato anche sul tentato attentato a Times Square e sulle bombe alla maratone di Boston. Lo HIG rappresenta un’indubbia sconfitta per la CIA, cui sono stati sottratti vasti poteri di interrogatorio, ma ha sollevato comunque preoccupazioni per i limiti delle sue competenze. I membri del gruppo possono volare ovunque nel mondo e prendere in custodia chiunque sia considerato di interesse per le indagini anti-terrorismo. Se i suoi metodi sono ispirati all’Army Field Manual, che proibisce la tortura, non è del tutto chiaro quali sono gli strumenti di interrogatorio utilizzati. In altre parole, cosa è consentito, mentre si interroga un sospetto, e cosa non è consentito.

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