Il sole ci ha bruciato senza pietà per tutto questo mese di settembre, trascorso senz’acqua nei tubi, e stemperato a tratti dalle piogge stagionali. Quanti milioni di persone sono partite ogni mattino e ogni pomeriggio, a piedi, in macchina, in carrette trainate da cavalli, sotto il sole di piombo, alla ricerca dell’acqua in tutti questi giorni? Una condotta avariata a circa duecento chilometri dalla capitale ci ha lasciato tutti a secco, proprio mentre la stagione calda era al suo apice. Il sole, lo smog e la puzza ovunque ci hanno bruciato le narici, i polmoni e la pelle. Code di gente esausta, seduta per strada a riempire d’acqua bottiglioni di plastica, taniche e bacinelle colorate nei pochi rubinetti funzionanti, trovati con un po’ di fortuna, con il passaparola, e un po’ di solidarietà preoccupata.

Quanto tempo può rimanere l’uomo senz’acqua? Quanto tempo si può rimanere prima che muoia il verde, muoiano gli orti e la vegetazione? Abbiamo letteralmente pregato perché venisse la pioggia, e siamo stati esauditi. Nell’aria rovente, sopra i tetti della capitale, si sono formati cumuli grigi poi neri come la pece, il sole ardente è scomparso, il vento ha soffiato, il fulmine poi il tuono sono venuti, e le piogge. La gente ha finalmente potuto fare la doccia, i giardini hanno bevuto, l’acqua è venuta dal cielo ad alleviare il caldo e dissetare la terra, ma anche a peggiorare la vita dei più poveri, una volta di più.

Perché mentre i tubi languivano come morti in quasi tutte le case, per amaro scherzo del destino, interi quartieri depressi (frutto dell’urbanizzazione caotica e anarchica di campagnoli migrati in città con la speranza, giusta o sbagliata, di vivervi una vita meno miserabile, e finiti poveramente ammassati tra la sabbia e i muri grigi, i liquami ed i cumuli di spazzatura) sono rimasti inondati, a sguazzare nelle acque stagnanti per mesi e mesi, come ogni anno.

L’incuria e l’imprevidenza umane, più che la sempre necessaria pioggia, lasciano ogni anno popolazioni intere con i piedi nell’acqua, fino alla stagione secca. Quando le acque si ritirano, sarà Dio a provvedere per l’anno che verrà. E intanto, quest’anno, alla tortura delle acque stagnanti si aggiunge quella dei tubi vuoti, delle gole secche. Senza potere bere né lavarsi, e tuttavia immersi in acque putride, per giorni e settimane, in rassegnata moltitudine. E anche nelle zone non inondate, ovunque donne, ragazzi, bambini con bottiglioni di plastica vuoti da dieci litri, catini e taniche, girovagano febbrili, a piedi sotto il sole, senza meta, senza nemmeno sapere dove potranno, se potranno, trovare quello che a giusto titolo, constatiamo, in Africa chiamano ancora “il prezioso liquido“.

E mentre successivi interventi per sanare il guasto alla fonte uno dopo l’altro fallivano, la gente scavava pozzi vicino al mare, trovava provvisorio soccorso presso i camion-cisterna che, lentamente, insufficientemente, imprevedibilmente tentavano di dissetare, dove potevano, le popolazioni. Il caldo ci inzuppava di sudore e non ci si poteva lavare, né cambiare i vestiti, famiglie numerose suddividevano tra tutti e per tutte le necessità vitali i pochi litri di sudatissima acqua. L’acqua potabile, venduta in sacchetti, in bottiglie e bottiglioni, aumentava di prezzo un po’ dappertutto, in certe zone non si trovava più affatto.

Alcune zone che dipendevano, per fortuna loro, da altre fonti, da altre condotte, permettevano che familiari, amici, conoscenti si approvvigionassero vicendevolmente, per solidarietà o a pagamento. Facevano buoni affari i carrettieri e i tassisti, ma i più poveri, le donne, i bambini portavano sulle teste i miseri secchi, destinati a vuotarsi in fretta. Anche i bisogni fisiologici sono un problema quando non c’è acqua, si cerca allora di trattenerli fino a sera, di evacuare usando la minore acqua possibile…

L’igiene e la salute ovunque ne risentono. C’è chi ha costretto a usare acque residue, o attingere alla falda contaminata. La mancanza d’acqua pulita e sufficiente ha ucciso (in questi giorni più del solito) bambini, poveri e malati, e non è un’ipotesi, lo sanno bene i miei amici medici; non tanto negli ospedali stessi, ma nelle case, nei quartieri, nelle strade dove i senza casa, i pazzi, i mendicanti, gli handicappati, le misere madri con figli piccolissimi, e i bambini di strada chiedono l’elemosina tra i miasmi infernali dei gas di scappamento di auto che sarebbero state da rottamare nel 1985.

Le piogge poi, agognate da alcuni, temute da altri, pur venendo a portare sollievo, oltre che a inondare i poveracci, hanno impregnato i nostri corpi provati, raffreddato all’improvviso i nostri spiriti, spargendo raffreddori, influenza, scavato nella stanchezza e nella depressione immunitaria di stagione, aggravate dal calore complessivo, dall’atmosfera irrespirabile, dalla sete. Siamo stati e siamo tuttora chi più chi meno, malati o almeno malaticci. Chi ci ha guadagnato invece, oltre ai venditori d’acqua, ai carrettieri, alle mosche e agli scarafaggi, sono state di sicuro le zanzare, che hanno prosperato nelle pozze, con il caldo, falciando con varia intensità al loro arrivo il solito sacco di gente.

Si sarebbe detto che, più del solito, non ci fosse più spazio per tutti, ed infatti a quest’epoca la città avrebbe dovuto essere piena di centinaia di migliaia di pecore e montoni accampati un po’ dappertutto in preparazione della festa della Tabaski, ma quest’anno gli ovini e i loro pastori sono in ritardo per causa di forza maggiore, perché non c’è acqua in tutta la città. Dopo dieci giorni e passa così si è capito infine che eravamo davvero nei guai e allora si sono finalmente messi tutti quanti a saltare sulle poltrone, hanno chiamato anche i francesi e i cinesi, poi sono partiti sul posto con gli elicotteri, perché la gente in città e anche sul web cominciava finalmente a perdere la pazienza granitica sfoggiata fino ad allora.

Un amico del Benin mi ha detto che se una cosa del genere fosse successa a Cotonou la gente sarebbe partita di corsa con i secchi e i catini a prendere l’acqua direttamente dalla condotta presidenziale. Qui invece alcuni giovani hanno bruciato qualche copertone, ma faceva troppo caldo anche per quello forse… Comunque espressa o meno, la rabbia saliva e nelle file per l’acqua, tra le signore, cominciavano a scoppiare le risse, per un pugno di taniche in più.

Alla fine, a quanto pare, è stato un ingegnere senegalese a tappare la falla, a concepire il pezzo di acciaio a forma di ypsilon che non esploda di nuovo al passaggio delle acque, affinché esse possano infine di nuovo fluire, lentamente, metro dopo metro, fino alla città ormai allo stremo delle forze (come se fosse stata per settimane sotto l’assedio di un medievale nemico, e invece era solo l’ostaggio di sé stessa e del proprio oblio) alleviando anche, lungo il percorso di oltre duecento chilometri, l’arsura dei villaggi e dei centri minori prima della capitale.

E le acque sono arrivate, pigramente direi, di certo non sono le cascate Vittoria, e di giorno siamo sempre a secco e solo di notte possiamo riempire le taniche dai rubinetti più bassi, perché nella mia zona ancora l’acqua è poca e scarsa è la pressione. E non sappiamo come evolverà esattamente la situazione nei giorni che verranno, quanto risolto sia il problema, nella decomposizione del servizio pubblico. E fortuna che da queste parti non ci sono turbine nucleari da raffreddare… E anche se l’emergenza più grave è rientrata, e possono finalmente entrare in ordine sparso i nugoli di montoni e di pecore del Sahel, forse è venuto il momento di tirare le nostre conclusioni su come è stato possibile che quasi tre milioni di persone siano rimaste senz’acqua per oltre venti giorni, e sulle garanzie che abbiamo che in futuro l’acqua ce l’avremo sempre, in questo posto e altrove nel mondo che arde.

 

Domingo fui a Kifangondo

Kifangondo não havia menha

Eu fiz a sopa com agua da mukwenha

Agua rara, agua rara

Traduzione :

Domenica sono andato a Kifangondo (la centrale dell’acqua di Luanda)

A Kifangondo non c’era acqua

Ho fatto la minestra con l’acqua della pozzanghera

Acqua rara, acqua rara.

 

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