Cosa si  può fare per  evitare che si ripetano tragedie nel mare come quelle attorno a Lampedusa? Al di là dei sentimenti si può davvero fare  qualcosa? Non banalizziamo ma intanto una cosina piccola si può fare subito, da domani. L’ho sentita enunciare  da un esperto del Fieri, la rete di ricerche sull’immigrazione, (eravamo al cinema Baretti di Torino a guardare un documentario sui ragazzi  richiedenti asilo che vengono cacciati dalla Norvegia al compimento del 18esimo anno).  

Bisogna incentivare  i pescherecci e  i mercantili a prestare soccorso ai barconi che trasportano i migranti. Per quanto si aumentino i pattugliamenti  di militari polizia e affini – è il ragionamento – restano più numerose, e per fortuna, le barche dei privati, di chi è in mare per lavoro. E’ vero che c’è il codice ‘del mare’ che impone di prestare soccorso, ma è anche e soprattutto vero che per chi presta soccorso le difficoltà e le perdite di tempo (e di denaro) sono garantite (più  difficile è, al contrario, essere individuati e perseguiti per non aver prestato soccorso).

E allora, realisticamente, si preveda un indennizzo per chi interrompe il proprio lavoro e a volte dedica giornate intere a prestare soccorso. Detto da qui, da lontano, può sembrare minimalista. Ma  non sottovalutiamo la necessità di far marciare insieme solidarietà ed economia. Non ci sarà bisogno di trasformare l’indennizzo in un affare né, quindi di stanziare molti milioni all’anno.  Le  altre proposte, più ambiziose e di fondo, sono quelle dei cosiddetti corridoi umanitari, e comunque di occuparsi di chi, comprensibilmente, non ce la fa più a vivere in Eritrea o Somalia. Ma sono anche un po’ più complicate da  mettere in atto. Il fondo di indennizzo per chi presta soccorso ai barconi può essere deciso in poche ore, sull’onda dell’emozione nazionale. E poi resta, al di là dell’emozione, per consolidare almeno in parte, la rete di soccorso.

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