E’ un film che non ha una fine, un’opera  scritta da uno sceneggiatore barocco che non ama gli epiloghi e non sa scrivere the end. Perché dopo non saprebbe cosa fare.

Il problema della commedia andata in scena ieri (e da 20 anni, con piccole variazioni sul tema) nel palcoscenico parlamentare della politica italiana è questo: quando sembra che l’epilogo della storia sia lì, accade qualcosa che allunga il brodo. Un  romanzone di appendice. Tragico e infinito, senza né vinti né vincitori, se non apparenti. Ad un certo punto, una concatenazioni di coup de theatre fa riavvolgere sempre la pellicola e disorienta il pubblico, non solo all’estero, ma anche quello che parla la lingua locale.

Se non fosse una bellissima e malinconica canzone d’amore, a questo “spettacolo” si potrebbe ironicamente adattare “senza fine” di Gino Paoli: “Senza fine/sei un attimo senza fine/non hai ieri/non hai domani…”.

La notizia di ieri è questa (e vagliela a spiegare a un tedesco o a un francese): non è finito nulla e tutto ricomincia. L’eterno ritorno dell’uguale, il trionfo della politica del traccheggio e del rinvio della resa dei conti. Berlusconi ha schivato, certo sempre con maggiore fatica, la sua fine politica: in zona Cesarini ha buttato la palla in tribuna e ora tutti la cercano. Così ha rinviato la fine della sua partita, non si sa fino a quando, forse fino a domani quando la giunta del senato voterà la sua decadenza, ma forse no. Quante volte è stato dato per finito?  Una commedia tragica senza “the end” politico, qualunque, ma “the end”.

E di conseguenza la sceneggiatura si sbrodola per tutti gli altri attori in scena: Il  Letta/1 non è finito e il Letta bis non ci sarà, forse mai, non si sa, certamente non ora. Il Pdl non è finito e Forza Italia forse inizierà ma forse no e comunque non sarà mai quel che voleva essere e per cui era stata annunciata la sua nascita. Alfano ha strappato dal suo capo ma forse no, perché forse tratta condizioni migliori dentro il suo “ex” (ma forse non tanto ex) partito di cui è ancora formalmente segretario. La legislatura non è finita e non si sa quando e se finirà prima della scadenza. Renzi non entrerà in scena o forse sì, certo non domani, forse dopodomani. Il centrodestra si è spaccato o forse no, si capirà oggi o domani. E tutto ciò nel nome della stabilità, per ora, per ieri ma non si sa se fino a domani.

Quasi uno sberleffo alla realtà, drammatica che inarrestata e da mesi scorre fuori dal “teatro” e dagli schermi, nella realtà bruciate del paese reale, dove tutto invece finisce o non è mai neanche iniziato: come il lavoro che non c’è per milioni di ragazzi. O la Cig che non c’è e la fine delle fabbriche che invece c’è per decine di migliaia di operai.

Nella mia città di nascita, Catania, il linguaggio popolare (figlio delle commedie dialettali e grottesche di Nino Martoglio, della serie “Civitoti in pretura” o “San Giovanni decollato” e così via) è pieno di contraddizioni in termini. Per esempio, quando uno dice a un altro  “sei tragico”, vuol dire “sei comico e fai ridere” e se gli dice invece “sei classico”, vuole dire “sei tragico, fai piangere”. Ma qui, in questa commedia politica italiana che cosa facciamo – ridiamo, piangiamo? – se non sappiamo ancora come finisce? E il protagonista Berlusconi, se recitasse Martoglio, sarebbe un tragico o un classico? Alla fine di questo atto, la gente in sala si chiede: ma come finì questa commedia?

Perfino il capo degli industriali Squinzi, anch’egli ieri seduto in sala, è sbottato e  l’ha detto: “la politica in Italia è ormai come il calcio, fino al 90esimo minuto non sai mai come va a finire”. Ma in realtà questa partita non è finita, neanche ai rigori. E questo spettacolo infinito rischia di non avere più spettatori sugli spalti. Un dramma, per qualsiasi paese civile.

 

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