Da Castellamare di Stabia alla Romagna, da Ravenna a Rimini e poi giù, lungo la statale Adriatica, fino a Cattolica, Fano e Ancona, trasformate in piazze di spaccio. Ma il clan D’Alessandro – la cui origine risale alla metà degli anni Settanta e le cui alleanze hanno attraversato la storia dei Cutolo, dei Bardellino e dei Nuvoletta – non ha fatto affari solo con la droga, che comunque fa arrivare al porto di Ravenna per poi trasportarla via terra in altre zone, tra la bassa Campania e la Calabria. Ci sono night club, ristoranti, bar e negozi di abbigliamento, soprattutto gli outlet e quelli di intimo, nei quali piazzarci come commesse alcune delle ragazze fatte arrivare dall’estero e non inserite nei locali notturni. E in loco, a occuparsi della logistica dei boss, ci pensano gli autoctoni, con i quali i camorristi si incontrano sotto gli occhi di tutti, nei caffè dei centri commerciali della zona.

Il quadro lo traccia la Direzione distrettuale antimafia di Napoli che da anni si occupa degli affari in varie regioni d’Italia afferenti al capo cosca di Scansano, Michele D’Alessandro. Al quale – ricorda un recentissimo rapporto del coordinamento Libera Parma, pubblicato all’inizio di settembre – sarebbero legati i componenti di una banda che a Salsomaggiore (la stessa località dove si nascondeva un altro luogotenente della camorra) estorcevano denaro a un ristoratore fresco dell’apertura di una pizzeria. Fatti, questi, che hanno portato alla condanna di 5 persone che devono scontare in totale 35 anni di carcere. E ancora, sempre nel parmense, esponenti della cosca di Castellamare di Stabia erano stati arrestati in un’operazione coordinata dalla procura di Varese per la gestione di esercizi pubblici distribuiti in tutta la Pianura Padana.

Per quanto riguarda invece il capitolo delle infiltrazioni in riva all’Adriatico, le carte dell’antimafia partenopea parlano di conseguimento e controllo diretto o attraverso prestanome (spesso le donne dei boss) di attività economiche e imprenditoriali, usura, detenzione di armi da guerra ed esplosivi, riciclaggio e omicidi, come quelli di Luigi Tommasino, il consigliere comunale Pd di Castellamare ucciso nel 2009, del parcheggiatore abusivo Antonio Scotognella e di Aldo Vuolo. Delitti che chiamano in causa sempre loro, gli uomini dei D’Alessandro, i quali dalla provincia di Napoli hanno a lungo soggiornato in Romagna programmando da qui anche gli ammazzamenti. E a questa zona infatti gli investigatori iniziano a guardare sulla scorta di quanto, in due fasi articolatesi tra il 2006 e il 2008, cominciano a dire alcuni collaboratori di giustizia partendo da diversi anni prima.

Da qui emergono le “riunioni” nei punti di ristoro del centro commerciale Le Befane di Rimini, gli incontri con il reggente del clan Vincenzo D’Alessandro e i suoi uomini, i treni con cambio a Bologna presi da Napoli all’ultimo momento per sistemare problemi che insorgevano nella gestione romagnola e la frequentazione del covo di Ravenna, un condominio a due piani che si trova in via Missiroli dove il boss viveva con la compagna romena e con il figlio di pochi anni. I riscontri logistici alle affermazioni del pentiti arrivano dall’analisi delle celle, che confermano gli spostamenti e i soggiorni. Inoltre c’è il contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali che lascia pochi dubbi sull’appartenza di chi parla.

“’A gente sai cosa sa? Che tu appartieni alla famiglia D’Alessandro”, viene detto – e ribadito in un più conversazioni – tra due presunti sodali, Enzo Guarino e Salvatore Belsito. Quest’ultimo, in un’altra conversazione, dice inoltre a una donna che sta parlando “con un camorrista… con quello che comanda qua… con quello che ‘schiatta a capa’ alla gente”. Un altro presunto appartenente al clan, Catello Romano, si definisce “un mafioso imprenditoriale” e procedendo nella lettura delle trascrizioni dei dialoghi tra le persone sotto intercettazione emerge anche un tariffario del pizzo: tra 1000 e 1500 euro al mese per gli imprenditori e i negozianti, 3 mila per i ristoratori e 5 mila per gli albergatori.

Infine c’è il ruolo di colui che viene ritenuto il basista locale, un insospettabile fino a non molto tempo fa. I suoi referenti campani lo chiamano “il bolognese” anche se è nato a Ravenna nel 1954 e di nome fa Daniele Casadio, lo stesso citato per la prima volta in un’inchiesta giornalistica di Metropolis Web, testata della Editrice Stampa Democratica ’95 i cui cronisti hanno subito intimidazioni da uomini proprio del clan di Castellammare, presentatisi pure in redazione. Dalle carte della Dda di Napoli, Casadio è quello che prende in affitto l’appartamento ravennate di via Missiroli dove si nasconde Vincenzo D’Alessandro (suo è il nome riportato sulla cassetta della posta), rifornisce e gestisce con altri presunti complici (tra cui un non meglio identificato Paolo di Ravenna) alcune delle piazze di spaccio distribuite tra la Romagna, le Marche e la Calabria. Inoltre c’è il supposto ruolo di killer, se necessario. E in proposito dice un pentito: “È stato lo stesso Casadio a raccontarmi di avere partecipato ad alcuni omicidi commessi dai D’Alessandro nell’ambito della faida con il clan Imparato”. Infine sempre lui avrebbe avuto un ruolo dell’individuare i fornitori più vantaggiosi per la droga (“Aveva delle amicizie in Colombia”, hanno dichiarato i collaboratori di giustizia) e i canali attraverso cui far giungere al porto romagnolo gli stupefacenti. Canali che si appoggiavano a società di import-export internazionale di Ravenna.

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