“Hai mai pensato a quel progetto di esportare la piadina romagnola?”, cantava qualche anno fa Samuele Bersani. Chissà se è a conoscenza del fatto che qualcuno non solo ci ha pensato, ma lo ha pure fatto, deviando il percorso dall’India agli States, New York City per la precisione, quella dove tutto può accadere cavalcando la suggestione dell’eterno sogno americano. Andrea Tagliazucchi, modenese, classe 1973, è approdato in America e nel febbraio del 2005 assieme ad altri due soci ha aperto Piada NYC, per portare il sapore della Romagna nel cuore della Big Apple. Quella di Andrea, Giovanni Attilio e Daniele Buraschi è una storia di successo e intraprendenza, nata da un’idea semplice all’apparenza, ma che dietro di sé ha costanza, tenacia ed una buona dose di artigianalità ed improvvisazione, come veri pionieri. Dopo l’apertura del secondo locale Andrea è tornato in Italia, perché stare fermo in un solo posto troppo a lungo non si addice alla sua indole.

Come vi è venuto in mente di portare la piadina a NY?
L’idea è nata da Giovanni Attilio, ex compagno di università. Giovanni fece due viaggi a New York, nel 2002 e nel 2003, prima e dopo il matrimonio, rimanendo affascinato dalla città ma trovandoci il difetto della mancanza totale della piadina. Inaccettabile. Così, tornato a casa ne parlò con me e l’amico Daniele, a cena. Io ero appena tornato in Italia dopo anni di Africa, e avevo voglia di sperimentarmi in un ambiente agli antipodi, ma l’idea di una piadineria a New York mi sembrava una cosa da pazzi. Però dopo averci dormito su telefonai a Giovanni e gli dissi che ci stavo. New York è una città aperta a qualunque tipo di iniziativa, il resto avremmo dovuto mettercelo noi. Così stendemmo un business plan e cominciammo a farlo girare tra amici, parenti, conoscenti, ex colleghi, insomma tutti quelli che avrebbero potuto mettere il capitale per partire. Finalmente un ex collega di Daniele trovò interessante il progetto, coinvolse altri investitori ed arrivammo a raccogliere circa 100mila dollari, somma sufficiente a partire.

Ottenere un visto per gli Usa per aprire un’attività commerciale, è stato facile?
Niente affatto: al consolato americano a Firenze, in fila davanti a noi in attesa di essere ricevuti c’erano diverse persone che furono rispedite a casa, perché presentarsi con un’idea vaga non è sufficiente, per quanto straordinaria possa essere. Noi avevamo impiegato un mese a strutturare un business plan, avevamo un progetto su carta e questo ci ha consentito di essere ricevuti. Così abbiamo ottenuto il visto business e tanti auguri dal console, con la promessa che se l’idea fosse maturata e avessimo individuato le opportunità ci avrebbe concesso, una volta rientrati, il visto da investitori, che permette di restare negli Usa per cinque anni consecutivi. Così, a febbraio del 2005 siamo sbarcati a New York.

E una volta arrivati a New York come vi siete mossi?
Prevalentemente a piedi. Abbiamo macinato chilometri per trovare il locale e la zona giusti, con tanto di appostamenti a diverse ore del giorno per studiare i flussi di gente e la clientela potenziale. Abbiamo usato metodi piuttosto caserecci. New York è stracolma di offerte, devi avere la capacità di centrare il crowd, il tipo di persone che gravitano attorno a quell’area. Ad aprile abbiamo trovato il locale, nel Lower East Side, gli operai che avrebbero dovuto sistemare gli interni ed i vari fornitori, dai frigoriferi alla macchina per le piade. Così siamo tornati in Italia con un contratto d’affitto e tutto ciò che ci sarebbe servito per partire: nel giro di un mese il console ci ha concesso il visto da investitori, dopo averci chiesto una serie di garanzie economiche, perché presupposto imprescindibile per andare negli Usa è fornire la prova che non si peserà in nessun caso sulle tasche del contribuente americano.

Come sono stati gli inizi?
Non nego che siano stati difficili, dovevamo far conoscere un prodotto completamente nuovo e farlo apprezzare, ma alla lunga il prodotto è piaciuto e ci è andato veramente bene: insomma, sì, è stato un successo. Così nel 2009 abbiamo aperto il secondo locale, al 601 Lexington Avenue, all’incrocio con la 53ma strada.

Intanto si affacciava lo spettro della crisi: ne avete risentito?
Quando abbiamo cominciato a cercare il secondo locale, nel 2008, la crisi ancora non aveva investito drammaticamente New York. Un anno dopo lo scenario era profondamente cambiato. uffici e studi chiusi, fuga generalizzata: la densità abitativa di New York è tale che le fughe diventano di massa, un fenomeno che in Italia non assume queste proporzioni.

Comunque nel 2010 abbiamo deciso di vendere il primo locale, non per la crisi, il settore della ristorazione ha comunque retto meglio di altri, quanto piuttosto perché avevamo bisogno di strutturare il locale in maniera meno artigianale ed improvvisata. Studio attento del brand e della comunicazione, persino dei movimenti del cliente all’interno del locale, riposizionamento della clientela: oggi abbiamo solo una clientela business ad esempio, abbiamo introdotto altri cibi italiani oltre alla piadina, insomma stiamo puntando a far crescere questo modello per poi arrivare ad attrarre nuovi investitori, far crescere il progetto, arrivare ad una catena: negli Usa ci si abitua a ragionare in grande. Ma ci vogliono meticolosità ed attenzione: al netto di questo costante sforzo rischi di trovarti fuori dal mercato in pochissimo tempo.

Siete stati imitati?
C’è un italo americano che ha aperto delle piadinerie nel New Jersey. Ma a New York no. A New York se si vuole mangiare la piadina bisogna venire da noi. E a pensarci non è per niente male.

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