Calagonone, Sardegna, una sera di estate. La luna che sorge crea uno splendido riflesso bianco sull’acqua. La bellezza del paesaggio invita a scattare delle fotografie notturne. Molte persone passano e fanno un tentativo.

Ad un certo punto appare una famiglia, madre, padre e un ragazzo di 10-11 anni. Il padre inizia a cimentarsi con la macchina fotografica. Poco dopo si materializza un altro ragazzo sui diciotto anni, visibilmente disabile, sgraziato, imbronciato, che contrasta con il resto della famiglia carina e sorridente. Fa parte del gruppo ma marginalmente, come se seguisse un po’ a distanza mostrando un’appartenenza non scontata. Mentre il padre prova e riprova a fotografare verificando nel visore la qualità della foto, Sergio, è il nome del ragazzo disabile, cerca di entrare nel campo fotografico, forse inavvertitamente o forse per provare a far parte del gruppo. Automaticamente il padre dice con un tono scostante:“Sergio, scansati!” ma questi sembra non raccogliere la sollecitazione, come cercasse, attraverso la foto, l’orgoglio dell’appartenenza alla famiglia. La scena si ripete più volte sempre con lo stesso tono, fino a quando l’uomo decide che non ci sono le condizioni per fare una bella foto e dice: “ andiamo, vengono solo schifezze”! Il terzetto si rimette in marcia e dietro, come trainato da una invisibile filo, segue Sergio, il figlio che rischiava di rovinare la bella foto.

Una scena triste, che sarebbe tuttavia troppo facile stigmatizzare con l’insensibilità della bella famigliola che si vede rovinato un momento d’intimità. Per cercare di capire a pieno il significato profondo di questa storia dobbiamo, ancora una volta, metterci nei panni di tutti i personaggi e non di uno solo.

In questo fugace e contingente atto si racchiudono non una ma tante storie di sofferenza, e bisogna avere il coraggio di vederle tutte e di non prendere scorciatoie che possono portare a pensare in maniera ideologica e ad agire di conseguenza.

Vi è innanzitutto la sofferenza di chi è disabile, sofferenza che possiamo definire tanto più acuta e crudele quanto maggiore è la consapevolezza della propria limitazione, perché è proprio la parte più sana di me a costituire un calvario, a farmi vedere la mia inadeguatezza e la mia “bruttezza” confermati in mille piccoli episodi come questo, dove gli altri diventano inconsapevoli carnefici.

Vi è la sofferenza del fratello sano, che spesso si sente ingiustamente decentrato e in colpa per la sua normalità fino a poter odiare il fratello disabile. Vi è la sofferenza dei genitori. Il crollo delle aspettative che tutti abbiamo nei confronti di un figlio, il senso di impotenza verso le sue sofferenze che non siamo in grado di alleviare.

Allora questa foto con la luna alle spalle in cui Sergio non deve mostrarsi ed essere mostrato, è forse il simbolo segreto del più inconfessabile dei pensieri: che questo figlio, per il suo bene e per il nostro, non sarebbe mai dovuto nascere.

La sfida più grande è di creare le condizioni concrete, psicologiche, culturali, legislative per cui la realtà in cui ciascuno vive, non induca a pensare “non sarebbe mai dovuto nascere” o “non avrei mai voluto nascere”, o “sento la sua morte come una liberazione”. Fantasie di questo tipo possono affiorare in situazioni difficili in ciascuno di noi e quindi non devono essere né represse, né condannate, ma dobbiamo, con il nostro fare e il nostro esserci di operatori, ma anche di gente comune, lavorare per un mondo in cui sia possibile l’emergere di fantasie del tipo: “Posso comunque essere orgoglioso del coraggio di questa persona che fatica e lotta in ogni momento della giornata per fare cose che per me sono semplici.” Forse questo può essere tanto anche nella consapevolezza dei limiti invalicabili.

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