A rischio di venire smentito (e delle conseguenti sbertucciature nel blog e non solo), pronuncio il mio vaticinio perentorio: ormai ha vinto Enrico Letta. Non a caso lo schieramento d’establishment in suo soccorso è davvero imponente: dall’Eugenio Scalfari, che l’altra sera da Lilli Gruber lo definiva “l’unico statista”, al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che qualche giorno prima ne aveva avallato le più che problematiche previsioni sulla fine della recessione. Conseguentemente ciò significa che gli altri contendenti in campo hanno chiuso.

Difatti il destino dell’ex Cavaliere è ormai segnato, nonostante i sempre più patetici colpi di coda. Eventualmente l’unico aspetto ancora dubbio, in questa ormai interminabile minestra riscaldata, resta il come potrà avvenire quanto la fedele (?) Daniela Santanché prefigura, mettendolo in guardia: “ti vogliono portare via lo scalpo”. Accertato che da tempo il cranio berlusconiano ha sostituito la chioma originaria con un caschetto di plastica tinteggiata all’hennè, tipo ciclista. Si immagina l’espressione attonita dello scalpatore sioux quando crede di afferrare i capelli e gli resta in mano una protesi!

Ma anche per Matteo Renzi il tempo che passa si direbbe avviarlo alla data di scadenza; nonostante la poderosa ramazzata di tutti gli opportunisti saltati sul suo carro, da Enrico Franceschini al Governatore di Regione Liguria Claudio Burlando, dalemiano di lunga navigazione. Infatti più resta sotto i riflettori e più il sindaco Gianburrasca mostra tutti i limiti della sua natura furbetta: dice e disdice, si spende sui preliminari che conquistano l’applauso proprio in quanto generici, ma non va oltre il riciclo – lui, il conclamato rottamatore – di ideuzze blairiane vecchie di decenni.

Insomma, giunti sull’orlo del precipizio, ci si rende conto che la carnevalata è finita. E che dopo tanti clown serve serietà professionale. Difatti Letta è uno che ci sa fare, non uno “smarrito” alla Mario Monti, opaco gestore di banalità bocconiane. Per di più esibisce un aplomb monacale adatto ai tempi, tanto che mai lo si vedrebbe scorrazzare in Ferrari sul Ponte Vecchio, come il giovanile fiorentino che pretenderebbe di surclassarlo.

Ancora una volta la scuola democristiana sforna grandi tecnici del potere; nella logica non “del fare” ma “dell’imbalsamare”. L’ineffabile modello moroteo di congelare qualsivoglia problema rimandandolo alle calende greche. Tipi che hanno la straordinaria capacità anestetizzante che ancora una volta viene richiesta da un ceto dirigente giunto alla stretta del sacco di questioni troppo grosse per lui; e che potrebbero decretarne la fine.

Ma – ci si chiede – l’interesse nazionale coincide con la libidine da sopravvivenza di alcune migliaia di persone abbarbicate alle loro poltrone? Tutte ormai pronte a dichiararsi di fede lettiana. No di certo. Mentre, in questo eterno ritorno della politica italiana, siamo retrocessi di una quarantina d’anni, alla casella “alternativa”. Quale può essere oggi l’alternativa alla mummificazione del Paese? Presto detto: rimettere in moto il quadro politico, che tutti concorrono – per un verso o per l’altro, per intenti anestetici o verbosità inconcludenti – a bloccare definitivamente. C’è bisogno di una cornice di riferimento al bisogno di cambiamento, dopo le profonde delusioni degli ultimi tempi, persi a scomunicare e controllare scontrini.

Vista la qualità delle persone pronte ad attivarsi (Carlassale, Ciotti, Landini, Rodotà, Zagrebelsky: i firmatari del documento-appello “La Via Maestra”), l’appuntamento per la Costituzione del 12 ottobre prossimo potrebbe rivelarsi fondativo di una nuova soggettività collettiva. Ovviamente a rete. Dopo tante chiacchiere, più puerili che stregonesche, sul potere del network inteso come tecnologia, il dopo forma-partito potrebbe esplorare la potenza del relazionale espandendosi sui territori. Il modello hub and spoke, rete e raggiera, come configurazione soft del modo postmoderno di costruire un’effettiva opposizione alla modalità di governo sub specie aeternitatis incarnata da Enrico Letta, l’ultimo democristiano.

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