La storia del mondo è anche e soprattutto storia delle sue vicende politiche. E dunque il titolo non allude a una tale ovvietà, bensì alla tendenza recente della politica a proporsi come “storia”.
Da sempre, con surcigliosa sufficienza, gli europei hanno stigmatizzato la politica americana come politica-spettacolo: poche idee, ancor meno ideali, molto/troppo pragmatismo, e tutto un luccicare di stelle e strisce addosso alle majorette sgambettanti. In un paese dove la conflittualità di classe è stata ridotta al rango delle corporazioni sindacali non poteva che andare così.

Il novecento è stato il secolo delle grandi narrazioni politiche, dei grandi e massimi sistemi della riorganizzazione del mondo. Il fallimento di quasi tutti questi “racconti” – dal fascismo al comunismo – ha ridotto la dinamica politica del mondo occidentale ad una pantomima ammiccante al pragmatismo americano, senza tuttavia quel corredo di storie che riescono a compattare una nazione al punto di convincerla che la lotta di classe è un’invenzione dei bolscevichi e non invece un normale ingranaggio dell’evoluzione del mondo.

Perché di storie l’America ne ha raccontate, e quasi tutte false. Ma funzionanti. La più potente in assoluto rimanendo quella sull’american dream: questo è un paese di opportunità, chiunque abbia talento e volontà e forza morale può fare la sua fortuna! Chi ha visto Lincoln, di Spielberg, ha verificato il fatto che la grandezza di quel presidente non era nelle idee che esprimeva (fra l’altro piuttosto contraddittorie), quanto nella sua magistrale arte del “raccontare”.

Una storia talmente potente da essere importata – con la cultura o con la forza – al resto del mondo.

L’Europa del dopo muro ha fatto i conti con i suoi fantasmi e ha provato a fare a meno di questa struttura irrinunciabile del pensiero e dell’azione: il racconto. Che è divenuto, scalando di molto il suo livello di pregnanza, il racconto di questo o di quello, di tutti e di nessuno. Storie decise a tavolino, ancorate ad alcuni miti bassi della cultura popolare, senza alcun respiro epico, senza alcuna luce proveniente da una qualche teoria del mondo.

In Italia, in venti anni, abbiamo sentito proporre una storia – quella della “rivoluzione liberale” – da parte di un signore che costruiva palazzi, che si arricchiva con le televisioni, che colonizzava l’editoria, in una forma che persino il grande Propp – nella sua Morfologia della fiaba – avrebbe ritenuto ostico spiegare. Rivoli di storie convergenti sui comunisti in agguato, sulla Magistratura eversiva, sulla ingiudicabilità di un eletto a furor di popolo, che convergono tutte nell’eterna disponibilità italiana a innamorarsi di chi li accompagna al sonno con poche buone parole piazzate al posto giusto.

Quasi tutti noi abbiamo fatto l’esperienza di addormentarci in braccio ad una nonna, il cui compito era quello di farci stare dentro al suo racconto, ammaliati più dalla sua voce e dalla riconoscibilità della narrazione, che dalle cose che diceva.
Perché – ogni bambino lo sa – la storia deve essere sempre la stessa!

Sandro Vero

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