Ieri sera sono passata alla Compagnia Generale dei Viaggiatori spinta un po’ dalla nostalgia per le vacanze appena finite, e un po’ dall’ansia di dieta ipocalorica (il tema di non prendere – almeno subito – il peso perso in vacanza). Con sorpresa, oltre che un’ottima cucina, ho incontrato una persona speciale. Si chiama Enrico Nicolini ed è il titolare dello storico ristorante giapponese che tutti i milanesi conoscono (una volta a Cascina Cuccagna, oggi in Via Sottocorno, sempre a Milano) che spiega con parole semplici, la costruzione di un piatto che è più di un piatto. E’ una piccola opera d’arte.

Lui dice che “la mia è una cucina basata sullo stupore. È un amore in tutti i sensi, più che per il singolo piatto. Si basa tutto sulla ricerca, sul dettaglio, sul particolare che abbia un senso sia estetico che di gusto. Ad esempio, del basilico aggiunto a un classico spicy tuna dà un tocco verde e ripulisce la bocca, evitando che il piccante del tabasco rovini il palato per i piatti successivi”.

Detta così, fa quasi eccessivo. Ma non è così. Il locale non è altezzoso, anzi, ed Enrico semmai è originale, ma non certo “divo” né pretenzioso. Applica in modo estroso alcune semplici regole di una cucina che parte dalle “molecole”. Si basa cioè sulla trasformazione del cibo, in tutti i sensi: la consistenza delle materie prima viene sconvolta in modo quasi alchemico, i sapori vengono distillati e resi vibranti, i piatti tradizionali vengono rivisitati e corretti in combinazioni virtualmente infinite.

Nicolini conosce bene il suo ambiente. Quello della cucina giapponese, sempre più trendy (e sempre più maltrattata), e quello della ristorazione in generale. “La cucina italiana oggi è di altissimo livello, con delle potenzialità e dei giovani talenti incredibili. Ma non ci sono più gli spazi per creare, la gente non ha voglia di investire, il carico fiscale è allucinante. Perdiamo tantissimi talenti che se ne vanno all’estero, perché qui aprire un’attività è follia. È un dispiacere enorme vedere che la decadenza generale infatti anche un ambito di eccellenza assoluta come il nostro”.

L’eccellenza, già. Perché ai fornelli gli italiani sanno essere eccellenti anche quando non trafficano con spaghetti e pizza. Nell’era di MasterChef, in cui il piatto sembra essere passato un po’ in secondo piano rispetto alla parolaccia, alla carognata dello chef iperstellato, il molecolare potrebbe essere una risposta nuova, creativa. Dove non c’è spazio per le prime donne, perché: “La cucina è un’arte così bella che è un delitto non insegnarla. Noi ristoratori dobbiamo sempre essere aperti ai consigli e alle critiche, dobbiamo migliorare e crescere, ma purtroppo quel rapporto di sincerità fra cliente e ristoratore è venuto meno”.

Ho avuto la netta impressione che le fans più accanite di questo tipo di cucina siamo proprio noi donne. Sarà per i colori? Per la raffinatezza? “Sicuramente la cucina molecolare piace di più alle donne, non ci sono dubbi. Perché è leggera e perché dedica molta attenzione alla presentazione del piatto, alla bellezza di ciò che si mangia. Mi è capitato parecchie volte di avere a che fare con coppie spassosissime, in cui lei era entusiasta del sashimi, mentre lui avrebbe tanto voluto una bella amatriciana”.

Cosa non si fa per amore. All’estero l’hanno capito prima di noi, che per far colpo il molecolare funziona eccome. Però, poi, noi italiani sappiamo metterci anche l’atmosfera giusta, quella dei ristorantini a conduzione familiare, in cui dai del tu al proprietario. Ma cosa succede dietro alle quinte di questo meccanismo? “Tanta ricerca. Si sperimenta, si prova, si studia ogni dettaglio, dalla materia prima alla presentazione. In futuro voglio inventare sapori completamente nuovi, perché alla fine in cucina bisogna divertirsi, è questo che traina la voglia di lavorare, di sperimentare”.

Già. E io mi diverto ad assaggiare.

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