A Ciudad Juarez, cittadina messicana a ridosso del confine con gli Stati Uniti, tristemente nota per gli stupri, le violenze, gli omicidi e le sparizioni di donne di tutte le età, molte delle quali sono salite su degli autobus di linea e non hanno mai fatto ritorno, è arrivata una giustiziera e vendicatrice. Il suo nome è Diana. La polizia ha aperto un’inchiesta e cerca una donna con una parrucca bionda o con i capelli tinti, con una gonna scura che mercoledì scorso – davanti a molti testimoni – ha freddato con una pistola l’autista di un autobus. E il giorno dopo ne ha ucciso un altro con un colpo alla testa, non prima di avergli detto “voi ragazzi vi sentite così cattivi, vero?”. Poi, nel fine settimana, ha inviato diverse mail ai media locali, presentandosi come Diana ‘La Cazadora de Choferes’ (la cacciatrice di autisti) e diventando in breve tempo simbolo di ribellione.
 
Il testo della mail inviata al quotidiano La Polaka non ammette dubbi, Diana si attribuisce il duplice omicidio e si presenta come la vendicatrice degli abusi e delle violenze nei confronti delle donne di Juarez. “Pensano che poiché siamo donne siamo deboli e abbiamo bisogno di lavorare fino a tarda notte per mantenere le nostre famiglie non possiamo far altro che tacere questi atti che ci riempiono di rabbia – scrive -. Le mie compagne hanno sofferto in silenzio, ma non possiamo tacere di più, siamo state vittime di violenze sessuali da parte dei conducenti che coprono il turno di notte qui a Juárez e nessuno difende o fa nulla per proteggerci, quindi io sono uno strumento per vendicare diverse donne che apparentemente siamo deboli per la società, ma non lo siamo veramente, noi siamo coraggiose e noi ci faremo rispettare per mano nostra. Le donne di Juarez sono forti”.
 
Città operaia, Ciudad Juarez è costellata dalle maquilladores, stabilimenti a proprietà straniera, spesso americana, e in regime di esenzione fiscale, dove la forza lavoro è impiegata sottocosto e dove non sono rispettati i diritti minimi di tutela della dignità umana. In queste fabbriche della disperazione e della morte, efficacemente raccontate da Naomi Klein nel suo No Logo e da Roberto Bolano in 2666, lavorano soprattutto le donne di Juarez, che la mattina prendono gli autobus per recarsi al lavoro, senza sapere se faranno ritorno. A inizio degli anni novanta furono scoperti i cadaveri di centinaia di donne sgozzate, stuprate e trucidate nel deserto, e di altre migliaia fu denunciata la scomparsa. E poi di nuovo agli inizi del nuovo millennio. Fino a che ultimamente la nuova struttura industriale di Juarez l’aveva fatta prendere a modello di un nuovo e futuro Messico.
 
Ma i femminicidi a Ciudad Juarez non sono mai fermati. E oggi è apparsa sulla scena Diana, dal nome mitologico della dea romana della caccia: la serial killer bionda che dà la caccia agli autisti. Se i rappresentanti delle associazioni per i diritti umani dello stato di Chihuahua credono che la misteriosa donna sia stata a sua volta vittima di un abuso e cerchi vendetta, gli inquirenti non escludono invece che in una zona tormentata dalle lotte per il controllo del confine – dal narcotraffico all’emigrazione clandestina verso gli Stati Uniti – la misteriosa donna si inserisca in nel più ampio conflitto tra bande rivali, e la sua veste mitologica sia solo fumo negli occhi dei media. Ma le donne di Juarez non hanno dubbi, e dopo avere subito così a lungo le prepotenze degli uomini, accompagnate dal loro slogan “ni una mas” (nessuna, mai più) si sono schierate tutte dalla parte di Diana.
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