Questa è la storia di una piccola Ilva. Una storia di passione e dolore. Di denunce inascoltate e richieste di giustizia. Sullo sfondo non la grande fabbrica, ma un piccolo laboratorio universitario. È la storia di Emanuele “Lele” Patanè, dei suoi colleghi, giovani come lui, e della loro passione per la ricerca scientifica. Vissuta fino in fondo, nonostante la precarietà. Nonostante i veleni costretti a respirare ogni giorno. Con il fiato sospeso. Fino a morirne. Una storia che in questi giorni sarà raccontata alla 70esima edizione della Mostra del cinema di Venezia grazie alla regista siciliana Costanza Quartiglio e al suo film “Con il fiato sospeso”, presente al festival nella selezione ufficiale fuori concorso 

Protagonista della pellicola, della durata di 35 minuti, è Stella, interpretata da Alba Rohrwacher, neolaureata in farmacia che trascorre la vita nei laboratori dell’Università di Catania. Anna, la sua coinquilina, ha invece mollato quel mondo per dedicarsi alla musica e cerca di metterla in guardia sui rischi che corre passando le sue giornate in un ambiente di studio considerato malsano. La vita di Stella s’incrocia con quella di un giovane dottorando, autore di un diario di denuncia e voce narrante della storia, quella di Michele Riondino 

“Questa è una storia – afferma Costanza Quartiglio – che andava raccontata. Esiste, infatti, una soglia oltre la quale un film perde la sua libertà per essere parte di un sistema di valori, accettato e riconosciuto. La storia dei giovani che studiano in laboratori insalubri e dannosi – sottolinea la regista di Terramatta – ci racconta di come l’Italia sia un Paese senescente, che negli anni ha dato prova di essere incapace di progettare il futuro”.  

I fatti risalgono ad alcuni anni fa e sono tutt’ora oggetto di un procedimento giudiziario, presso il Tribunale di Catania, che a fine anno arriverà a sentenza di primo grado. Al centro del dibattimento le condizioni di lavoro dei laboratori della facoltà di Farmacia della Cittadella universitaria di Catania, battezzati laboratori dei veleni. Una bomba ecologica dove le concentrazioni di inquinanti, secondo i rilievi tecnici disposti dalla Procura etnea nei terreni sottostanti, erano da 10 a 100 volte superiori ai limiti fissati dalla legge per una zona industriale.

L’inchiesta parte nel 2008 con il sequestro delle strutture disposto dalla magistratura. L’indagine trova subito riscontro nelle parole annotate in un diario, cui Emanuele Patanè, giovane scienziato laureato a pieni voti in farmacia che per anni ha lavorato tra quelle mura, affida le proprie amarezze, la propria rabbia, le proprie disillusioni. E, con coraggio, le proprie denunce. Nel 2002 gli diagnosticano un cancro ai polmoni, che il 5 dicembre 2003 – lo stesso anno in cui completa il dottorato di ricerca – lo uccide poco meno che trentenne. Nelle cinque pagine del memoriale, redatto due mesi prima della morte, il giovane ricercatore etneo esprime con lucidità e fermezza il suo j’accuse proprio contro quel luogo in cui ha trascorso per anni la maggior parte delle ore della sua giornata. E contro i responsabili che sapevano, potevano e dovevano intervenire, ma non lo hanno fatto. Da tempo lo studioso, vedendo alcuni colleghi, docenti, tecnici, amministrativi ammalarsi o morire di tumore, ha lanciato l’allarme, inascoltato. “Sono tutti casi dovuti ad una situazione di grave e dannoso inquinamento del dipartimento e sicuramente non sono da imputare ad una fatale coincidenza”, annoterà in seguito nel suo diario. Intanto, anche lui si ammala e, quando la notizia si diffonde, è costretto a rinunciare alla borsa di studio, malgrado sia l’unico partecipante al concorso.  

“Con la presente descrivo un dannoso e ignobile smaltimento di rifiuti tossici, e l’utilizzo di sostanze e reattivi chimici potenzialmente tossici e nocivi in un edificio non idoneo a tale scopo e sprovvisto dei minimi requisiti di sicurezza”. Sono le prime parole del diario. Una condanna senza appello. Il breve memoriale è un lucido resoconto dell’ambiente di lavoro universitario. Nel laboratorio del giovane Patanè le tre finestre sono serrate. I frigoriferi, arrugginiti, non sono a norma. Il sistema di ventilazione e filtrazione non è idoneo. Non funzionano a dovere le due cappe chimiche, che dovrebbero aspirare i vapori dei reagenti più nocivi. Sostanze spesso lasciate con incuria sui banconi, libere di sprigionare le loro esalazioni venefiche. E che “a fine giornata – si legge nel diario – provocavano mal di testa e uno strano sapore al palato che faceva pensare ad un’intossicazione”. Veleni spesso smaltiti negli scarichi dei lavandini, con un rischio elevato d’inquinamento delle falde acquifere che servono un luogo, quello della città universitaria, frequentato ogni giorno da migliaia di persone. 

A fine anno si saprà se le accuse di disastro ambientale e gestione di discarica non autorizzata reggeranno al vaglio del dibattimento. Un procedimento parallelo per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose dovrà dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento e i casi di tumore. In presenza di una sentenza di condanna, gli otto imputati, l’ex direttore amministrativo dell’Università di Catania, il preside della facoltà di Farmacia, il dirigente dell’ufficio tecnico e i membri della commissione di sicurezza – l’ex rettore Ferdinando Latteri, tra gli inquisiti, è deceduto due anni fa, pochi mesi prima del rinvio a giudizio, ndr – potrebbero rispondere anche di quelle morti. Di “Lele” Patanè e di quei ricercatori che, con il fiato sospeso, hanno respirato per anni quei veleni. Senza che nessuno provvedesse, nonostante i reiterati allarmi. 

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