Chi può essere indicato quale effettivo trionfatore nella campagna-farsa per l’abrogazione terminologica dell’Imu, subito sostituita da una nuova imposta di uguale tenore (o forse perfino peggio)? Non certo gli italiani, che continueranno a essere tartassati e – ora – pure irrisi dall’illusionismo nominalistico di cui sopra. Ma neppure Silvio Berlusconi dovrebbe cantare davvero vittoria; nonostante continui a suonare la grancassa, secondo abituale costume: la sua demagogica propaganda antitasse (comprese anche quelle che aveva votato lui stesso, come l’Imu) rientrava in un’astuta strategia per far oscillare sulla testa del governo la spada di Damocle del ritiro dalla maggioranza, se non gli fosse stato concesso un lasciapassare per muoversi sul terreno politico fattosi accidentato dopo la sentenza di Cassazione.

Ma ora, una volta portato a casa il presunto risultato atteso, diventa molto difficile, per non dire problematico, aprire la crisi dovendo andare alle elezioni con la scomodissima nomea certificata di quello che fa cadere i governi semplicemente per puri capricci personalistici. A questo punto si potrebbe dire che ha ragione Enrico Letta, quando consegna la palma del vincitore a se stesso e – implicitamente – al partito della stabilità ad ogni costo. Difatti la compagine governativa sembra proprio “l’Ercolino sempre in piedi” e nessuno pare in grado di metterla al tappeto. Durare – quindi – come massimo imperativo. Ma per fare che cosa? In primo luogo lasciare sbollire le tensioni sociali che lo scorso febbraio erano piombate a piedi uniti nell’urna elettorale. Dunque, favorire attraverso lo spossamento sistematico il passaggio dall’indignazione alla frustrazione fatalistica di quegli strati elettorali che avevano formulato una forte domanda di cambiamento.

Ma forse c’è in gestazione ancora qualcosa di più. Indirettamente segnalato dalla straordinaria coesione che si riscontra al vertice del governo, tra il premier e il suo vice. Una sorta di affinità elettiva, caratteriale e ideologica, tra quarantenni che hanno attraversato le stesse esperienze formative; ossia, l’essere cresciuti tra le gonne della Grande Mamma politica del tempo che fu: la Democrazia Cristiana. Infatti, nel gioco di stalli concertati e improvvise accelerazioni, nel gioco di un dire che non corrisponde mai al fare con cui si è superata la difficile impasse politica, si percepivano gli effluvi d’incenso propri di quella tradizione da sagrestia che sembrava ormai estinta. Per inciso: come ovvio, l’impasse è stata superata solo politicamente, visto che i problemi restano tutti irrisolti e potranno continuare a marcire indisturbati.

Ma questo non turba minimamente giovani di scuola “antico democristiana”, che nel sopire e rimandare edificò un regime durato mezzo secolo. Quel sopire e rimandare che ora è lo stile e il mantra dell’attuale compagine di governo. Che sta preparando con una forte determinazione il terreno per il dopo Seconda Repubblica: potremmo chiamarlo il ritorno della Dc? Operazione in cui Letta jr. sembra avvantaggiato rispetto all’altro chierichetto Matteo Renzi, potendo usufruire di un evidente vantaggio posizionale. 

 

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