Se sul piano dei concetti filosofici il realismo ‒ nuovo o vecchio che sia ‒ mi pare posizione ingenua, ottusa oltreché fiacca, è sul banco di prova dell’alterco politico che invece dovrebbe farla da padrone. Altrimeni trionfa la retorica ‒ e a spuntarla è sempre il più scaltrito o, che è lo stesso, il più melenso, cioè il buonista di professione (paciere democristiano prototipico) che sempre abbassa i toni, non agita mai le acque e quando non tace rassicura. Così, certo, non corre il rischio di contravvenire al galateo, lui che è ossequioso tanto quanto vuol essere autorevole. Trattasi ormai, in questa squallida Pitalia, di un tipo psichiatrico inequivocabile: da Monti summa cum Loden a Giano (bipartisan) Letta, infatti, l’elenco potrebbe indefinitamente dilatarsi, includendovi tutti i prudenti dalle maniere deboli che, bontà loro, sono sempre sobriamente equidistanti.

Tralasciando la sonnolenza che inducono, quali anestetici all’urgenza dello sdegno, mi preoccupa ben più ciò che nascondono: cioè la violenza, muta, del loro malfidato conformismo ‒ tracotanza della pacatezza, strenua difesa di equilibri intrinsecamente reazionari che tutto sono salvo che moderazione. Il tutto sancito dal dispotismo del rispetto tutti i costi. “Tutti vanno in quanto tali rispettati”; “il diritto di critica non deve mai eccedere nella mancanza di rispetto” ‒ ci indottrinano così fin da piccoli, ma è come dire: “criticate pure, ma fin dove vi permettiamo di farlo e secondo i modi che già abbiamo stabilito. Tutto il resto è inammissibile maleducazione”. Ma guarda un po’! E se, con la mia critica, intendessi esattamente dimostrare che qualcuno non merita proprio alcun rispetto? E se lo stessi criticando perché appunto lo disprezzo? Chi hai mai detto, d’altronde, che un criminale, magari un ex-primo ministro che ha frodato lo Stato e i cittadini, meriti rispetto? E perché mai se qualcuno, approfittando di un concorso pubblico truccato a suo favore, ottiene un posto all’università, dovrei chiamarlo ricercatore anziché impostore?

Ecco allora che la recente uscita di Grillo sugli Houdini della parola riesce particolarmente apprezzabile: «Non possiamo più parlare. Il politically correct ha trasformato le nostre conversazioni in parole sintetiche. Di plastica. Le ha svirilizzate. Parlare come si pensa è diventato uno scandalo». Appunto: perché vietarci di essere genuinamente scandalosi? Per quale motivo non dovremmo sentirci assolutamente liberi di insultare chi ogni giorno con le sue azioni ci offende? Che cos’è mai quest’odioso moralismo che tutto annacqua per il quale, in grazia di non si sa quale candore, dovremmo distinguerci dai nostri onorevoli oppressori e continuare comunque a ‘rispettarli’? È la formula, sadica, intrinseca a ogni repressione: la santificazione di un rispetto preventivo, astratto, pletorico, che come tale non si deve a nessuno.

Si deve anzi scegliere: o un’educazione remissiva, cotonata, ligia al potere dominate, oppure il conflitto per la verità. Una verità laica, prassistica, trasformativa, forse lontana dall’empireo dei concetti ma adeguata a imporsi socialmente. L’aveva capito alla perfezione Foucault quando, introducendo la figura del parresiastes ‒ colui che s’assume il rischio della verità e la pronuncia ‒ si sforzava di pensare una via d’uscita, un punto di rottura rispetto alla capziosità dei discorsi pubblici che, retoricamente coerenti con l’ambiente politico che li permette, non fanno che riconfermarlo e rafforzarlo. Com’è possibile produrre un discorso, appunto quello della verità, che non sia in quanto tale integrato al sistema che ne concede l’enunciazione? Il problema dell’‘offesa’, dunque la rivendicazione di una volontaria mancanza di rispetto, va posto esattamente in questi termini. Essa è una violazione necessaria affinché emerga un contenuto di verità che non venga immediatamente riassorbito dalla retorica consociativa del potere, che subito riconduce a sé ogni discorso semplicemente ‘educato’: lo depotenzia e lo rende così innocuo.

Che lo sappia o meno (ma lo sa senz’altro) il ricorso di Grillo all’improperio e all’oltraggio è un modo per incrinare il totalitarismo dei discorsi edificanti, la garbata compostezza del potere, là dove esso cela il suo lato più insidioso e vessatorio.

In molti casi, infatti, non c’è nessun rispetto da concedere: solo sacrosanto e profondo disprezzo. C’è bisogno di un parresiastes che, facendo scandalo, dica le cose come stanno. Un criminale è un criminale. Un impostore è un impostore. Moravia constaterebbe che “la realtà è la realtà”.

 

 

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