Il meeting di Rimini è da sempre palcoscenico affollato: da Bersani a D’Alema, da Napolitano a Formigoni, da Berlusconi a Maroni pare davvero che la fiera di Comunione e Liberazione sia il centro nevralgico del dibattito pubblico estivo. Parlare, da quel pulpito, ha un significato politico ben preciso, ma, anche fingendo di non coglierlo, le dichiarazioni non sono meno preoccupanti.

Ad esempio, Enrico Letta ha dichiarato: “I professionisti del conflitto vogliono coprire il loro vuoto di valori e di idee col conflitto permanente”.

È tipico degli illiberali o dei mediocri bollare le contestazioni come “professionismo”: deve risultare loro inconcepibile una protesta spontanea e disinteressata. E, così, chi ha un’idea diversa dal moderato è un professionista del conflitto, che non ha valori né idee. Verrebbe da chiedere a Letta quali siano i suoi, di valori e idee, ma, temendo per risposta un indecoroso silenzio o spiacevoli perifrasi, gli si evita l’imbarazzo.

Ma, sulla retorica del conflitto, l’imbarazzo glielo si dovrebbe imporre.

Se gli aderenti a Comunione e Liberazione ponessero attenzione al Vangelo, avrebbero dovuto ricordare a Letta che, proprio nel giorno del suo discorso, la liturgia ambrosiana proponeva l’episodio di Gesù al tempio: «Sta scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera. Voi invece ne fate un covo di ladri». Senza cedere alla tentazione di rimarcare la scelta di CL tra Dio e Mammona, non si può fare a meno di notare che rovesciare i banchi dei cambiavalute e cacciare i venditori di colombe potrebbe apparire, per usare una terminologia tanto cara ai seguaci del giovane Letta, un po’ divisivo, quasi da professionista del conflitto: che pure Cristo volesse “coprire il vuoto di valori e idee col conflitto permanente”?

Per non offrire soltanto l’esempio biblico, anche se calzante vista l’ambientazione clericale del discorso di Letta, tra i professionisti del conflitto dovremmo annoverare anche Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, Aldo Capitini, Danilo Dolci che non ambivano certo all’informe armonia che prende oggi nome di pace o di pacificazione, ma che erano anzi tra i maggiori responsabili di conflitti contro lo status quo. La pace che cercavano non era la concordia universale; era invece qualcosa che non elimina i conflitti, ma li guida verso una risoluzione creativa, nonviolenta e costruttiva.

Darà fastidio a Enrico Letta e a chi lo applaude, ma la pace intesa come assenza di conflitti e concordia obbligatoria contraddistingue più una dittatura che una democrazia: la ricerca di questo tipo di pace ha accomunato Hitler e Stalin.

L’omologazione delle idee non arricchisce certo la comunità, ma appiattisce il dibattito, atrofizza lo sviluppo e, infine, favorisce il più forte, non necessariamente il più ragionevole. Enrico Letta, in quanto capo di un Governo che affronta un periodo di crisi, non può ignorare, non comprendere o demonizzare il conflitto, perché, come scrive Matteo Pascoletti in un ottimo post su Valigia Blu, “non è il conflitto a essere permanente, è l’oppressione sociale a non essere risolta […] se si chiede «pacificazione» o «coesione», si chiede all’oppresso di cessare ogni resistenza alle bastonate; di mettere da parte le istanze di cui è portatore, a prescindere dal merito. E questi inviti, così eterei, così sospesi nell’aria, queste parole così buone nell’apparenza asettica che le ricopre, se rapportati a un esempio concreto mostrano la loro vera natura repressiva.

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