Il genere noir, oltre ad essere, se ben scritto, di avvincente lettura, fornisce spunti interessanti sulla società in cui viviamo. Sto leggendo ultimamente in questo ambito il disperante Resistere non serve a niente del Premio Strega Walter Siti, la trilogia sulla Cocaina di Carlotto, Carofiglio e De Cataldo, e la Cavalcata dei morti di Fred Vargas. In passato ho letto le opere del vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio (Garbatella combat zone e Suk Ovest) e di altri.

Ho invece finito recentemente un altro libro sul quale che vorrei oggi soffermarmi, anche per la possibilità che offre di fare qualche considerazione sulla situazione che stiamo vivendo in Italia. Si tratta di Il silenzio delle rane, di Arnaldo Marcelli, il cui autore, oltre ad essere mio padre, è un giovane (appena ottantanovenne) autore che ha prodotto ben sei libri negli ultimi sei anni.

E’ la storia di tre poliziotti, uno anziano, il commissario Calò, detto Quattropalle e due giovani, una psicologa e un fisico approdati, si immagina, alla Polizia di Stato per difetto di altri sbocchi lavorativi più adeguati alle rispettive specializzazioni anche se non difettano di una certa vocazione a fare gli sbirri nel modo giusto. Anziché dedicarsi a massacrare giovani o immigrati o a reprimere sacrosante lotte sociali, questi poliziotti fanno in effetti bene il loro mestiere senza guardare in faccia a nessuno. Poliziotti, insomma, come dovrebbero esistere a norma di Costituzione, e come probabilmente di fatto esistono in misura superiore a quella che è la percezione comune, a volte sviata da episodi di cui si rendono protagonisti individui che non sono degni di portare la divisa, ovvero da scelte politiche repressive di cui certo non sono responsabili gli appartenenti alle forze dell’ordine.

Svolgendo il proprio impegno professionale indagano su un efferato caso di omicidio facendo venire a galla tutta la criminalità insita nel sistema. La giovane e bella poliziotta viene debitamente infiltrata in un oscuro ambiente di corruzione, tangenti e vera e propria criminalità, dove il personaggio più ragguardevole è un dirigente politico noto per la propria abitudine alle “cene galanti”. In quest0 modo viene accertata dai nostri eroi la presenza di un vero e proprio “comitato d’affari” clandestino esistente a livello nazionale (e per molti aspetti anche internazionale)  “cerchia segreta con mire di dominio politico ed economico del paese, vagamente citato più volte dalla stampa di opposizione, ma mai individuato ufficialmente, tanto da apparire un’invenzione di giornalisti dalla fervida fantasia o un ectoplasma avvertito nell’aria da politologi dotati di una sensibilità sospetta”.

Le finalità di questo misterioso organismo sono così sintetizzate da un suo autorevole componente: “Sebbene i nostri fini si ispirino ai canoni della più ortodossa economia liberista, non hanno mai trovato legittimazione in questo Stato governato sulla base di una Costituzione, fondamentalmente paracomunista, che toglie al cittadino ogni possibilità di agire liberamente per realizzare i suoi obiettivi economici. Finanziare delle lobby per promuovere i nostri interessi è pratica normalmente ammessa negli stati ad economia liberale, ma qui no, qui si deve seguire la normale trafila parlamentare e certe attività sono vietate per pretese norme morali. Ragione per cui, per tutelare i nostri interessi, ci siamo dovuti organizzare come dei carbonari, cioè come dei rivoltosi che tramano attentati ai danni dello Stato. Unico modo, ripeto, per perseguire efficacemente i nostri obiettivi economici, sebbene la nostra massima aspirazione sia sempre stata quella di farci i fatti nostri in santa pace”.

Come recita la quarta di copertina “ogni riferimento a persone e situazioni politiche di oggigiorno è puramente casuale, anche se fortemente ispirativo”. Fantapolitica? Fino a un certo punto. Il piacevole racconto si snoda fra sapide considerazioni che possiamo ben considerare il precipitato di una saggezza oramai quasi centenaria e scene d’azione che sembrano la traduzione letteraria dei bei fumetti d’avventura dei tempi che furono.

La conclusione non ve la dico. Ad essa non è purtroppo estraneo un certo pessimismo cosmico (anche se riferito alle peggiori peculiarità italiche), che dobbiamo augurarci non si realizzi. Quello che certo è che di “Quattropalle”, per salvare e cambiare questo Paese (due termini che vanno insieme), ce ne vorrebbe qualche decina di migliaia. E non solo loro ovviamente. 

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