Paura di essere felici: la più classica, prevedibile sindrome da fine psicoterapia. Manifestazione psichica più inevitabile che comune, accompagna spesso la parte conclusiva dell’iter analitico di coloro che, per risollevarsi da uno stato depressivo, si risolvono ad affrontare un percorso terapeutico. I pazienti, infatti, abituati da lungo tempo a coesistere con determinati assetti cerebrali che prevedono uno squilibrio di alcuni neurotrasmettitori (con conseguente alterazione mentale e comportamentale), vivono uno stato di turbamento, paura, talvolta perfino di panico, dinanzi alla sensazione di benessere che il riequilibrarsi di quest’ultimi provoca in loro.

La felicità, paesaggio sconosciuto o da tempo dimenticato, sovverte l’orizzonte deviato e dolente del depresso, in una maniera così radicale, da fargli tremare la terra sotto i piedi. Spesso, dunque, la prima reazione alla novità, per quanto benefica, è il rifiuto e il tentativo di fuga. Successivamente -se tutto va bene-, abituandosi in maniera graduale al nuovo stato di cose, ancora guidato dalla mano sapiente del terapeuta, il paziente, tra alti e bassi, molla gli ormeggi del malessere e prende il largo verso la serenità.

In versione macroscopica, la stessa sindrome è riscontrabile nel Partito Democratico, all’interno del quale è evidente un fenomeno di depressione collettiva, dimostratasi tendenzialmente refrattaria a qualsiasi tipo di approccio terapeutico, fosse esso freudiano, junghiano, prodiano, bersaniano e chi più ne ha piu’ ne metta.

Per essere precisi, questa particolare declinazione collettiva del male del nostro secolo, consiste in un disturbo d’insieme: non si tratta di una collettività di soggetti separatamente depressi, bensì di un gruppo che si deprime in quanto tale. Chiunque entri a far parte del gruppo dirigente democratico contrae immediatamente tutta la sintomatologia depressiva: stanchezza, apatia, tristezza. Quella sensazione che nulla valga la pena, perchè in fondo nulla può cambiare la prostrazione endogena con la quale si è abituati a convivere, è riscontrabile nel lassismo decisionale dei nostri Larghi Intenditori, che si lasciano traghettare dal Pdl come pesi morti nella notte in cui tanto, ai loro stessi occhi, tutte le vacche sono grigie.

Del resto, questa notte monocolore è osservabile anche nel mistero politico delle somiglianze somatiche tra individui di età e sesso totalmente eterogenei: il fatto che una donna di una certa età come Rosy Bindi possa assomigliare ad un giovane uomo come Matteo Orfini, ed entrambi a loro volta possano somigliare a Romano Prodi è spiegabile solo con il grigio tinta unita per tutti. E anche quelle rare volte in cui sembrava che le cure stessero attecchendo e che ci potessero essere delle modifiche sostanziali dell’umore (vedi i punti di vantaggio che Bersani ha seminato come le molliche di Pollicino, vedi i franchi tiratori, ecc. ecc..), la paura della felicità ha preso il sopravvento e il Pd è tornato di corsa, con un bell’attacco di panico, a sdraiarsi sul lettino.

In qualsiasi caso di depressione, per valutare come convenga trattarla, innanzitutto bisogna stabilire a che livello essa sia invalidante per il paziente. Nel caso del Pd, l’abulia ed i pensieri – nonché i tentativi – di suicidio, inducono a stabilire che il grado d’invalidità sia pressoche’ totale. A questo punto, visto che la psicoterapia non basta, non ci resta che sperare nei progressi della psicofarmacologia.

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