È uscito pochi giorni fa il rapporto dell’Università di Yale (negli Stati Uniti) sulle responsabilità dell’Onu nell’epidemia di colera tuttora in corso ad Haiti e che ha già causato oltre 8.000 morti.

Pubblicato il 6 agosto, il rapporto s’intitola “Peacekeeping without accountability”, che potremmo tradurre come Missione di pace irresponsabile” (potete scaricarlo qui), e la principale conclusione del rapporto è che la MINUSTAH, missione Onu ad Haiti, dovrebbe al contrario rispondere dell’introduzione del colera in questo paese: secondo i ricercatori delle Facoltà di giurisprudenza e di pubblica sanità di Yale, vi sono infatti “ampie prove scientifiche” che indicano che i militari nepalesi della missione Onu hanno involontariamente portato il colera ad Haiti nell’ottobre 2010.

Per questa ragione, secondo il rapporto, l’Onu dovebbe assumere le proprie responsabilità, ed invece, come ho spiegato nel numero 5 del blog, intitolato “L’impunità ai tempi del colera”, le Nazioni Unite hanno opposto la propria immunità diplomatica per respingere le richieste di risarcimento presentate a nome di oltre 5.000 vittime del colera da un collettivo di avvocati di Boston, salvo poi organizzare un appello a fondi tramite il quale le Nazioni Unite chiedevano ai contribuenti internazionali (tramite gli Stati) altri due miliardi di dollari per affrontare l’emergenza del colera che l’Onu stessa aveva provocato.

La settimana scorsa vi ho poi parlato della piaga sempre aperta degli abusi sessuali che avvengono con preoccupante regolarità nelle operazioni di peacekeeping, e del fatto che, malgrado alcune misure adottate dall’Onu, permangono molti problemi di reclutamento, formazione e sorveglianza del proprio personale (particolarmente militari), e che gli autori di tali crimini godono di una sostanziale impunità, poichè sono rimpatriati e non processati nei paesi in cui commettono crimini; e le loro vittime non ottengono alcun risarcimento.

Una tale situazione costituisce a mio avviso una delle ragioni del fatto che le missioni di pace, malgrado il loro costo notevole, anche in vite umane, non sono in grado di svolgere appieno il loro ruolo di  protezione dei civili dalla violenza, soprattutto sessuale, che imperversa nei conflitti armati; ed a tale proposito ho mostrato, in particolare, il triste fato delle popolazioni civili del Kivu, una regione situata nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo (RDC), dove da vent’anni ormai, milioni di uomini, donne e bambini cercano di sfuggire alla violenza efferata delle bande armate criminali che hanno già fatto un numero incalcolabile di morti, malgrado la presenza della missione di pace più grande del mondo (fin dal 1999).

Ora, è notizia anch’essa recentissima quella dell’iniziativa congiunta della Rai, dell’Alto Commissariato per i Profughi, e dell’Ong italiana Intersos, che intendono realizzare un programma televisivo intitolato “Mission”, una specie di “reality show”, o, come lo chiamano gli autori del programma, “docu-reality” nel quale alcuni personaggi famosi (tra i quali, sembra, Albano, Emanuele Filiberto, Paola Barale, Barbara De Rossi e Michele Cocuzza) saranno mandati (gratuitamente, pare) per due settimane a fare i volontari in alcuni campi profughi proprio in Rdc ed in Sud Sudan (lo stato più giovane del pianeta ed una terra ed una popolazione devastate da decenni di guerre, violenze e privazioni).

Questa idea non è però piaciuta a tutti, tanto che è stata immediatamente fatta oggetto di petizioni online (a dire il vero inizialmente non è piaciuta tanto nemmeno a me, e anch’io ne ho firmata una), di un’interrogazione al presidente della commissione di vigilanza Rai, Roberto Fico, e delle proteste e denunce di innumerevoli organizzazioni, enti ed individui, che hanno criticato il rischio di spettacolarizzazione della sofferenza a meri fini commerciali e di raccolta di fondi da parte delle organizzazioni coinvolte.

Riflettendoci bene, tuttavia, va riconosciuto che è molto importante informare i cittadini sulle conseguenze del conflitto e della guerra, sulla condizione di rifugiato, sulle violenze ed in particolare le violenze sessuali che sono commesse contro le donne, i bambini ed anche molti uomini che vivono situazioni di grande vulnerabilità. Queste cose bisogna conoscerle, perchè bisogna assolutamente che cessino, non è accettabile che continuino. Poco importa la crisi, anche grave, che possiamo vivere nel resto del mondo: quello è l’inferno.

Un programma dunque che sveli queste realtà al grande pubblico ci può anche permettere, se fatto bene, di comprendere che coloro che abbandonano il loro paese per andare a cercare fortuna in un altro non lo fanno necessariamente per scelta; che molta gente scappa da situazioni dalle quali scapperemmo certamente anche noi; e  quanti italiani, pur senza guerre in corso (per fortuna) in Italia, desiderano, al giorno d’oggi, essi stessi emigrare!

È utile pertanto riflettere, oltre che sul diritto d’asilo, anche sul fenomeno delle migrazioni, che comporta tante dimensioni: non ultima, la necessità che le Nazioni Unite, con tutti i miliardi di dollari (pubblici) che sono stati spesi, insieme alle altre istituzioni internazionali, alle Ong, e ai governi, a cominciare dal nostro, agli attori privati, svolgano con maggiore efficacia, se ne sono capaci, il loro ruolo di pacificazione e di sviluppo dei paesi da cui scappa la gente, in questo piccolo mondo dove vivono oltre sette miliardi di esseri umani tutti nati “liberi ed eguali in libertà e diritti”, che “sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”, come recita l’articolo uno della Dichiarazione Universale dei diritti umani adottata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale dell’Onu.

Bisogna tuttavia che le modalità attraverso le quali il programma si svolgerà siano concepite a tutela non dei semplici interessi commerciali delle istituzioni coinvolte, ma dei diritti dei diretti interessati: cosa ne pensano i profughi? Sono stati, e in che modo, consultati? Quali sono le finalità precise dell’esperimento? Si intende promuovere una raccolta di fondi? A chi andranno questi fondi? Come saranno gestiti e cosa frutteranno? Quanto partirà in stipendi, benefits, consulenze, viaggi, conferenze, e quanto in programmi? I rifugiati del Congo e del Sud Sudan, che cosa ci guadagneranno? E se arrivano i miliziani cosa succede agli ospiti Vip?

Sono più o meno le stesse domande (miliziani a parte) a cui la Fao ha accettato di rispondere in seguito al mio articolo Ma la Fao a che serve?, come vedrete nel prossimo numero del blog: spero che l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, il Presidente della Camera Laura Boldrini, che avrebbe partecipato alla concezione del progetto, il Segretario Generale di Intersos, ed il presidente della Rai, ci risponderanno anch’essi.

Concludo poi pensando che già che ci siamo, l’esperienza del docu-reality potrebbe essere estesa anche al funzionamento interno di queste istituzioni, che funzionano con le tasse della gente. L’Alto Commissariato potrebbe dare l’esempio, invitando, insieme alle telecamere, non otto VIP, perché, ripeto, siamo tutti nati uguali, ma otto cittadini tirati a sorte, per vedere da vicino come funzionano le cose al momento, visto che in passato i problemi non sono mancati neppure lì, come testimoniano questi articoli. L’informazione, la partecipazione e la giustizia sono diritti che anche l’Onu, non solo gli Stati, ha la precisa responsabilità di realizzare.

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