Lo scenario non è così improbabile. Il rischio che l’Ilva fallisca, secondo il gruppo dei senatori del M5S, esiste realmente. “E se, come sembra, il gip di Taranto, Patrizia Todisco, ha ripreso l’attività investigativa, significa che i Riva, oltre agli 8,1 miliardi già sequestrati (provvedimento confermato dal tribunale del Riesame, ndr) potrebbe doversi accollare dell’altro”. A quel punto, per l’acciaieria Ilva sarebbe la fine.

Ma a prendere seriamente in considerazione il possibile crac del gruppo Ilva sono anche (o forse soprattutto) i partiti della maggioranza. E se l’azienda dei Riva dovesse davvero fallire, prima di ogni altro creditore, sarebbero le banche a vedersi corrispondere le somme dovute. Questo il contenuto dei tre distinti emendamenti (ma uguali nella sostanza) al decreto “salva Ilva bis” presentati nelle scorse settimane – dopo il via libera della Camera – dai senatori Luigi Perrone (Pdl), Stefano Collina (Pd) e Maria Paola Merloni (Scelta civica). Gli emendamenti sarebbero stati formulati in seguito ad alcuni incontri con il commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Bondi. L’amministratore delegato dimissionario dell’Ilva “è il garante nei confronti delle banche” spiega a ilfattoquotidiano.it il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando. Ergo non può essere rimosso. E pazienza se c’è un conflitto d’interessi. “Ma attualmente Bondi non è più amministratore di niente – chiarisce Orlando – oggi il vero azionista è il tribunale di Taranto. Se c’è qualcun altro però che ha la stessa autorevolezza di Bondi nei confronti del mondo creditizio, ce lo propongano”.

Parole ribadite anche a Claudia Mannino e altri deputati del M5S, che il 23 luglio scorso ne avevano chiesto la revoca dopo l’invio della contro-perizia rivelata dal Fatto in cui si imputava a tabacco, alcool e povertà la principale causa di tumore a Taranto.

Con la modifica introdotta dai tre senatori, Bondi riuscirebbe ad ottenere dagli istituti di credito i finanziamenti (1,8 miliardi) che serviranno per le attività di risanamento, avendo in sostanza la possibilità di garantire ad essi la restituzione dei crediti, anche in caso di un default delle finanze aziendali. Visti però i tempi stretti per l’approvazione del decreto (entro il 4 agosto), il governo ha chiesto ai senatori della maggioranza di ritirare i loro emendamenti (una trentina, su 105 totali). Detto, fatto. Ma la contropartita, chiesta e ottenuta dai rappresentanti di Pd, Pdl e Scelta civica a Palazzo Madama, è stata di tutto rispetto. Anzi, in questo modo, il progetto per salvare i crediti delle banche (insieme ad altri) viene messo in cassaforte.

Le modifiche, che i senatori della maggioranza avevano provato a introdurre in un primo momento, sono infatti confluite in un ordine del giorno che impegna il governo a fare propri i 7 punti e “ad inserirli nel primo provvedimento utile”, sottolinea il presidente della commissione Industria, Massimo Mucchetti (Pd). Tra questi anche il provvedimento che assicura Bondi: “introdurre disposizioni idonee a far sì che i finanziamenti a favore dell’impresa commissariata (…) siano prededucibili ai sensi ed agli effetti di cui all’articolo 182-quater del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”.

In altre parole i debiti con le banche vanno pagati con preferenza rispetto a tutti gli altri creditori. “Il ‘virus Monti’, che assicura precedenza nei pagamenti alle banche rispetto alle imprese e lavoratori, colpisce ancora”, commenta il Movimento 5 stelle. Il decreto “salva Ilva bis” è legge. Ora le banche aspettano solo il provvedimento, che il governo si è impegnato a varare, e con il quale verranno messi al sicuro i loro crediti.

In sostanza prima le banche, poi l’interesse nazionale e i Riva e infine operai e cittadini. Forse. Questi ultimi, infatti, nel caso in cui l’Ilva dovesse decidere di chiudere lo stabilimento di Taranto non avrebbero alcuna garanzia. Per ricevere l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), infatti, l’Ilva avrebbe dovuto fornire un documento fondamentale come il Piano di dismissione e bonifica degli impianti per fine esercizio. Una fideiussione bancaria, insomma, che sarebbe stata utilizzata per smantellare e bonificare l’intera zona sulla quale sorgeva il più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Un punto così importante che l’Ilva è riuscito a evitare: il piano e la fideiussione, infatti, risultano completamente mancanti nell’Aia del 2011 firmata dall’allora ministro Stefania Prestigiacomo e risulta inesistente anche nell’Aia parziale (poiché regolamenta solo le emissioni in atmosfera e non i rifiuti e le acque che dovevano essere regolamentate entro gennaio, ma nella realtà i tarantini attendono ancora) firmata il 27 ottobre 2012 dall’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini.

L’assenza del piano e delle fideiussioni per la fine d’esercizio è stata duramente criticata da Arpa Puglia e dai custodi giudiziari guidati da Barbara Valenzano che nei loro pareri finali alla bozza di autorizzazione scrissero chiaramente che l’Ilva avrebbe dovuto mettere nero su bianco gli impegni nell’eventualità di abbandonare Taranto con tutti “gli obblighi di fideiussione previsti dalla legge”.

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