In Tv la crisi è riassunta nelle immagini ormai abituali di lavoratori in cassa integrazione di una qualche azienda decotta, di solito in qualche territorio senza alternative del Mezzogiorno, che urlano contro la politica che li ha abbandonati. C’è però un’altra crisi, meno raccontata, più silenziosa ma non meno grave, che è quella delle partite Iva.

Non di quei dipendenti mascherati che vengono pagati a fattura perché l’azienda li vuole tenere precari il più possibile, ma proprio dei lavoratori “indipendenti”, come si definiscono. Che lavorano con la partita Iva per la natura occasionale della loro professione, l’esempio più classico sono gli interpreti e i traduttori. Ma anche gli informatici, i creativi, i consulenti aziendali. Basta andare dal commercialista in queste settimane di dichiarazione dei redditi, per sentirsi raccontare storie come questa: una traduttrice, in una città ricca come Modena, fattura 29 mila euro. Ma per la combinazione di saldi e acconti Irpef, più i contributi Inps al 28 per cento (perché i traduttori non hanno un ordine di riferimento con una sua cassa previdenziale) arriva a dover versare 15 mila euro.

A novembre su persone come questa traduttrice peserà anche l’aumento dell’acconto Irpef dal 99 al 100 per cento a novembre. E dal 2014, se il governo non interviene, scatterà anche un graduale ma pesantissimo aumento dei contributi previdenziali per chi versa alla gestione separata dell’Inps: dal 28 al 33 per cento in quattro anni. Acta, l’Associazione dei consulenti del terziario avanzato, sta chiedendo al ministro del Welfare Enrico Giovannini e al resto dell’esecutivo di bloccare questo incremento che potrebbe spingere migliaia di lavoratori verso redditi inadeguati a una sopravvivenza dignitosa. Per ora sono arrivate rassicurazioni verbali, non interventi concreti.

Morale: in un momento in cui ci sono poche imprese in grado di assumere, la ripresa potrebbe passare dai micro-imprenditori a partita Iva. Invece che creare le condizioni (di mercato, non di sussidi o assistenzialismo) perché questi lavoratori indipendenti possano sfruttare gli eventuali refoli di crescita, lo Stato e il governo approfittano dello scarso peso politico di chi non ha un sindacato o una lobby o un ordine come scudo. Tra acconti, tasse e contributi di fatto viene continuamente alzato il salario di riserva, cioè quello minimo per il quale vale la pena lavorare invece di restare inattivi. E lavoratori laureati, senza welfare, malattie e diritti, finiscono per lavorare a tempo pieno guadagnando meno di un operaio cassintegrato (costretto per legge all’inattività pena la perdita dell’ammortizzatore sociale). Così la stagnazione è assicurata.   

Twitter: @stefanofeltri

il Fatto Quotidiano, 24 Luglio 2013

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