Qualche tempo fa Paolo Sorrentino, autore del recente La grande bellezza, film denso e barocco sulla difficoltà della bellezza in un mondo permeato dalla bruttezza e dall’orrendo, lamentava la bellezza perduta nell’Italia dimentica del suo grande passato: “Io penso che i produttori del bello vadano – proprio come facevano i papi – lusingati, continuamente sollecitati, messi in concorrenza tra di loro, e questo secondo me da molti anni a questa parte non si fa più; anzi si è raggiunto l’effetto opposto per cui tutto ciò che ha a che fare con la cultura è diventato irrilevante, è diventato improduttivo o inutile”. Vengono in mente le parole di Sorrentino se si pensa alla fuga dal sapere umanistico prima ancora che dagli studi umanistici a cui si assiste in questi anni, non solo in Italia a dir il vero, ma soprattutto in Italia. Il segno più vistoso di questa crisi, ma non l’unico, è l’abbandono delle facoltà letterarie da parte dei giovani.

C’è un fenomeno drammaticamente curioso nel delicato incastro tra percorsi formativi, perlopiù universitari, e avviamento al lavoro. Da un lato, mentre non si perde occasione per denigrare in un modo o in un altro la cultura umanistica e chi ancora si attarda a svilupparla, si incoraggiano sempre di più le formazioni altamente specialistiche nei campi tecnico-scientifici, quelle che si fondano su un sapere di nicchia al tempo stesso innovativo e circoscritto; dall’altro in Italia si costringono coloro che si sono specializzati in questa forma a cercare fortuna all’estero. Quindi: il sapere umanistico è messo al bando come inutile e in certo senso ozioso, secondo la vecchia formula che predica che “con la cultura non si mangia”; ma anche il sapere scientifico non è premiato da concreti riconoscimenti. Ci accontentiamo di medietà, di un po’ di buoni professionisti nei campi dell’utilità sociale, niente di più.

In nome di questa utilità mordi e fuggi stiamo rinunciando o abbiamo già rinunciato alla capacità di esprimere grandi narrazioni del presente: in fin dei conti è questa la bellezza a cui fa riferimento Sorrentino, ed è questa capacità di esprimere bellezza che ha fatto grande la cultura italiana del Rinascimento così come l’opera ottocentesca o il cinema italiano del ventennio post-bellico, quello che ha espresso gli Antonioni e i Fellini, i Rossellini e i Visconti, i Ferreri e i Bellocchio. Ciò che sapevano questi autori, magari “senza saperlo”, senza lauree in Cinema o in Scienze della Comunicazione, era che ogni comunità sociale ha bisogno di grandi momenti di sintesi per dare un senso del proprio stesso essere e del proprio stesso essere comunità. Il cinema di questi autori era tutto fuorché “carino”, poiché non imitava piattamente il vivere quotidiano, ma si costruiva, secondo una nota e bellissima formula di Visconti, come “cinema antropomorfico”. Cinema, cioè, che raccontava non tanto gli accadimenti banali di questo o quel personaggio, ma la loro capacità di riassumere e interrogare i grandi snodi dell’esistere umano. Questo in fin dei conti sarebbe ancora oggi il valore del sapere umanistico: dare un senso a ciò che facciamo (forse questa è una cosa di sinistra?), affinché non diventiamo una comunità di meri esecutori di azioni per noi prive di un perché, ma siamo guidati da quella che Werner Herzog, altro grandissimo poeta del cinema contemporaneo, chiama la ricerca della verità. “Mi interessa la verità – dice Herzog.

Ma non quella, fintissima, del cinema verità né quella, fattuale, dei contabili. A me interessa solo la verità estatica. Quella rivelazione che senti quando leggi una poesia. I fatti creano la norma, la verità crea illuminazione”. Se non vogliamo morire sepolti dalla norma, ma pensare ancora a come cercare l’illuminazione, non mettiamo al bando, per favore, il sapere umanistico.

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