Gentile signora Ilaria Borletti Buitoni,

in una sua intervista pubblicata sull’ultimo numero dell’«Espresso», lei dichiara che io le avrei rivolto «i più ingiuriosi epiteti». Dalla sua piccatissima risposta a Maurizio Crozza – reo di averla accostata a Moira Orfei a causa della sua imponente acconciatura – è facile capire come lei non gradisca né l’ironia, né le critiche. Ma io non le ho mai rivolto ‘epiteti ingiuriosi’: e la sfido a trovarne anche solo uno negli interventi pubblici in cui ho avuto l’ardire di citarla.

Ma, a questo punto, mi permetta di spiegarle perché, a mio giudizio, la sua nomina a sottosegretaria ai Beni culturali rappresenti un sintomo eloquente della regressione politico-culturale del nostro Paese.

Scendendo (o salendo?) in politica lei ha donato ben 710.000 euro a Scelta Civica di Mario Monti (un membro del Consiglio di amministrazione del Fai, che lei presiedeva). Quindi Monti l’ha nominata capolista in Lombardia. E, dopo la sua non sorprendente elezione, Scelta Civica ha chiesto che lei diventasse ministro per i Beni culturali (suo obiettivo dichiarato). Ma alla fine ha dovuto accontentarsi di uno dei due posti di sottosegretario in quel ministero. E, dopo tutti i soldi che ha speso, posso anche capire che nella stessa intervista lamenti che la stanza che le hanno dato al Ministero non venisse pulita da anni: come si è mal serviti, signora mia!

Per prenderla con leggerezza si potrebbe rammentare che nel Secolo di Luigi XIV Voltaire ironizza amaramente sulla vendita delle cariche pubbliche che connotò la fase peggiore del governo del Re Sole, quando «si creavano cariche ridicole, sempre facilmente comperate … essendo gli uomini di loro natura vani …, e così si immaginarono cariche di sottodelegati, ispettori visitatori del burro fresco, assaggiatori del burro salato».

A prenderla seriamente, invece, ci si potrebbe domandare (legittimamente, viste le regole del Porcellum) se lei sarebbe membro del Parlamento e del Governo anche senza quella gigantesca donazione. E ci si potrebbe chiedere se questa concatenazione di eventi non rappresenti una forma estrema di privatizzazione del cuore stesso dello Stato.

Ma anche l’accostamento con le pratiche dell’Antico Regime è istruttivo. Perché lei si chiama Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni, e deve la sua attuale carica all’aver presieduto un’associazione, il Fai, nel cui consiglio d’amministrazione siedono, tra gli altri, Bruno Ermolli, Gabriele Galateri di Genola, Vannozza Guicciardini Paravicini, Galeazzo Pecori Giraldi. E, a capo della sua segreteria al Mibac, lei ha voluto Biancaneve Codacci Pisanelli.

L’ironia sull’affollarsi di cognomi aristocratici e grandi capitali sarebbe gratuita se tutto ciò non avesse molto a che fare con le sue idee circa la funzione e il governo del patrimonio.

Nella sua prima dichiarazione, in occasione della Notte dei Musei del 18 maggio scorso, lei pensò bene di dire che «è assolutamente impossibile che lo Stato abbia risorse sufficienti per ampliare l’offerta culturale senza ricorrere anche al sostegno dei volontari». Come dire: «Non hanno pane? Che mangino le brioches!».

In ogni sua dichiarazione pubblica, lei ripete che bisogna distruggere il «legame indissolubile» tra lo Stato e il patrimonio storico e artistico. E che questa distruzione sarebbe una ‘modernizzazione’. L’unica salvezza, per lei, sarebbero i privati: il modello da perseguire è quello della cessione del brand del Colosseo a Diego Della Valle, o dell’affitto degli Uffizi per eventi privati. Di più: allo Stato dovrebbe rimanere solo la tutela, mentre la gestione dovrebbe essere affidata ai privati, con o senza fini di lucro.

In tal modo, lei si è ritagliata (non so quanto consapevolmente) la parte di periferica cheerleader di una ideologia attuale trent’anni fa: un reperto dell’epoca di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Oggi, al contrario, il dibattito pubblico americano conta gli incalcolabili danni di decenni di privatizzazioni selvagge, e rilancia il ruolo dello Stato. Come ha scritto nel 2010 Tony Judt – forse il più influente intellettuale americano dei nostri giorni – «l’incapacità del mercato e degli interessi privati di operare a vantaggio della collettività è sotto gli occhi di tutti».

E non so se è informata che, da vent’anni a questa parte, la gestione dei principali musei e siti monumentali italiani è stata proprio affidata a concessionari privati che hanno creato solo reddito privato a spese di un patrimonio pubblico morente, utilizzando come schiavi generazioni di giovani precari e desertificando la politica culturale pubblica, ridotta ad un mostrificio commerciale.

Lei forse preferisce un modello di charity gestito da ricche dame dai molti cognomi: ma io dubito fortemente che un ritorno alla beneficenza dell’Antico Regime permetta al patrimonio di svolgere la sua funzione prevista dalla Costituzione. Che è quella di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza, e favorire il pieno sviluppo della persona umana attraverso la conoscenza generata dalla ricerca scientifica. Tutte cose che possono essere assicurate solo da una gestione pubblica: né dai concessionari venali, né dalle ronde della carità.

E lei, da sottosegretario di Stato ai Beni culturali, dovrebbe invece pensare solo ad applicare la Costituzione su cui ha giurato: per esempio lottando per riportare a livelli decenti il finanziamento pubblico al patrimonio (sceso di due terzi dai tempi di Bondi ad oggi). Provando, cioè, a rimediare al doloso sottofinanziamento che mirava proprio a rendere inefficiente il sistema che oggi si vuole privatizzare perché – guarda un po’ – divenuto inefficiente.

Il patrimonio artistico dell’Italia dovrebbe e potrebbe servire alla più cruciale sfida per la sopravvivenza della democrazia nel nostro tempo: ridurre la diseguaglianza.

E invece lei lavora perché un’ulteriore privatizzazione aumenti, rappresenti, celebri questa intollerabile diseguaglianza.

Edmund Burke ha scritto che una società che distrugge il tessuto del proprio Stato «si sfalderà in una polverosa disgregazione di individualismi».

Non mi stupisco che lei lavori in questa direzione: io lotto per un futuro diametralmente opposto.

Cordialmente,

Tomaso Montanari

 

Aggiornamento del 22 luglio 2013 ore 18.40

Pubblico a seguire la replica del sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni e la mia controreplica:

La risposta di Ilaria Borletti Buitoni, dal suo blog

Gentile Prof. Montanari,

La sua lettera aperta non fa che confermare le mie parole: lei non mi conosce, non ci siamo mai incontrati, ma questo non la esime dall’esprimere valutazioni su di me, come persona e sul mio modo di operare, che definisco, in alcuni casi, ingiuriose come quella già da lei sottintesa, e in modo ben esplicito in passato, di aver “comperato” il mio attuale ruolo di sottosegretario. 

Quanto alla mia attività politica, lei continua a confondere un “regalo” a Scelta Civica con il costo documentato fino all’ultimo euro, cosa piuttosto rara in Italia, di una campagna elettorale per altro inferiore a quello delle ultime amministrative romane o delle stesse politiche alle quali lei si riferisce, sostenuto da molti candidati e da partiti che potevano contare su sostanziosi contributi pubblici.

(continua)

La mia controreplica

Lei vuol privatizzare tutto: ma non può render privata, e salottiera, anche la vita pubblica. Non conosco personalmente nemmeno Berlusconi: ma le assicuro che ne ho un giudizio fondato

Non ho scritto che lei abbia materialmente “comprato” una carica: mai ho insinuato che lei abbia commesso un reato. Ma, vigente il Porcellum, è sano che chi fa donazioni così alte (circa 35 anni di stipendio del direttore degli Uffizi) sia poi portato da quel partito a sedere in Parlamento, e al Governo? Siamo ancora una repubblica democratica, o un regime per censo?

Lei non ha risposto: perché ora che è sottosegretaria di Stato non lavora per migliorare il governo pubblico del patrimonio, invece di invocarne l’abdicazione a favore dei privati?

Infine, il problema non sono i doppi cognomi in sé, ma il progetto politico cui si connettono: «Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi. Chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione e protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende dal pubblico» (T. Judt).

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