Sull’Independent dello scorso 16 luglio Charlotte Cripps ha dedicato un lungo articolo alla cosiddetta Twitter-poetry, all’uso, cioè, di comporre e inviare in Rete brevi poesie, stando all’interno dei 140 caratteri previsti dalle regole del social cinguettante.

La faccenda sta coinvolgendo moltissimi dei migliori poeti di quella che potremmo chiamare la scena Off-London e non solo: da Benjamin Zephaniah, nome rilevantissimo dello spoken word internazionale, a George Szirtes, vincitore del TS Eliot Prize, a Elizabeth Alexander, che insegna alla Yale University. Né c’è difficoltà a riconoscere che fenomeni simili stanno avvenendo anche in Italia, sia su Twitter, quanto su Facebook.

Non intendo, ovviamente, dare la stura a qualsivoglia polemica di vera, o presunta, ‘lesa maestà’. La poesia è arte ‘amichevole’ per eccellenza, ha abitato (e abiterà) media assai differenti, senza perdere nulla di ciò che le è essenziale: il suo essere arte della parola. Piuttosto vorrei sviluppare alcune riflessioni che questo fenomeno inevitabilmente stimola, a partire da quanto illustrato dal pezzo sull’Independent.

1) A causa della sua strutturale ‘contrainte’ – i 140 caratteri di un tweet – questa forma di poesia contemporanea incontra immediatamente sulla sua strada – apparentemente così futuribile – alcune forme assolutamente tradizionali. Intanto, ovviamente, l’haiku giapponese, non a caso un altro modo per indicare la Twitter-poetry è Twihaiku.

Ciò che richiede la Twitter-poetry non è, in linea di principio, differente da ciò che richiederebbe comporre un tradizionalissimo sonetto, o una ballata, come notano molti degli autori intervistati dalla Cripps. Ciò che cambia è che, invece delle sillabe e degli accenti, a essere decisivo è qui il numero dei caratteri, indipendentemente dalla lunghezza e dalle caratteristiche prosodiche dei singoli versi, ma, come dicevo appena un post fa, non è certo il verso ad essere la caratteristica principale della poesia

Ciò che conta è che le cosiddette ‘forme chiuse’ fanno il loro ritorno in poesia (magari anche sotto le mentite spoglie di Oulipo, a testimonianza di quanto sia oggi insensato analizzare la poesia alla luce di categorie come Avanguardia, o Tradizione) e lo fanno in modo affatto nuovo e singolare: mettendo in crisi quel ‘verso’ che, fino a ieri, è sembrato a moltissimi la loro caratteristica principale.

2) Come ho avuto modo di notare più volte altrove, ciò a cui stiamo assistendo a livello antropologico è un fenomeno di mutamento globale delle relazioni e delle gerarchie tra lingua orale e lingua scritta.

L’alfabeto e le sue culture mutano giorno per giorno, sottoposte a torsioni violentissime, il testo diventa sempre più impermanente, ‘orale’, la Rete lo sfilaccia e lo precipita al fondo del rotolo infinito della schermata di un qualsiasi social, mentre la voce sfarfalla, ma resta, incisa, digitalizzata, sospesa: Verba manent, scripta volant
La nostra cultura torna in parte a essere ‘orale’ e ‘aurale’, o multimediale, ma comunque dinamica, affondata interamente nello scorrere del tempo, la lingua torna ad essere discorso, senza cessare di essere testo.
È esattamente a questo che si riferisce Judith Palmer, Direttrice della Poetry Society, quando dichiara a proposito dei tweet-poem: « they can reach a wide audience in moments but they’re also ephemeral, evaporating pretty as the Twitter-feeds roll relentlessly on».
Tutto ciò è vero indipendentemente dalla decisione dell’autore di pubblicare successivamente quelle medesime poesie in un libro, o su una pagina web.

3) Una delle domande che, implicitamente, ci pone la Twitter-poetry è: la poesia continua ad appartenere al poeta?

Ciò che voglio dire non è soltanto che fenomeni del genere, con la loro presunta diffusione di massa, mettono in crisi radicale il concetto d’autore, con tutto quanto di positivo e di profondamente negativo ciò comporta, ma proprio che, anche nel caso in cui a twittare siano autori ‘riconosciuti’, il loro testo, come mai prima d’ora, viene loro sottratto dal rimbalzo in linea di principio infinito dei tweet e – ancora più – dalla possibilità, non sottoponibile a regole, dell’eventuale mutamento del testo ‘originale’, che inevitabilmente può innescarsi, alla faccia di ogni e qualsivoglia copyright, o controllo autoriale.

4) La poesia è – oggi come ieri e come sempre – un’arte migrante e il libro è ormai (e infine!) solo uno dei suoi innumerevoli luoghi (comuni).

La poesia è un’arte migrante la cui migrazione ha poi caratteristiche affatto particolari; il suo incedere verso il futuro è insieme una continua riscoperta delle sue radici più antiche: mutate, certo, ricontestualizzate, ma di nuovo presenti, nel senso letterale della parola. 

Ovviamente, l’unico modo per vedere se davvero quanto sopra proposto sia in qualsiasi modo fondato è farla, la Twitter-Poetry.

Così io, per intanto, do il buon esempio e, mentre va online questo mio post, invio il mio primo #twtpoem: sono 140 caratteri esatti, compreso l’hashtag.

 

Interfacciati dal febbraio al cuore

Connesso e coassiale sin l’amore

Cablato questo sentimento duro

Dell’altezza inarrivabile del muro

#twtpoem

@lellovoce

Forza, ora tocca a voi! 

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