rembrandt-cavalloCorreva ieri l’altro l’anniversario della nascita di Rembrandt ‒ per cui, tanto per cominciare, perdonate il ritardo. In ogni caso, prenderei l’occasione a mo’ di pretesto, per dare l’abbrivio a una sorta di rubrica (poniamo mensile) che si eserciti di volta in volta nel commento a una specifica opera d’arte (esondando semmai pure ai suoi ‘dintorni’). Evitando troppe petulanze enciclopediche, e così i garbugli del criticismo capriccioso, vorrei proporre approccio più confidenziale, attento cioè alla percezione immediata, che preferisca l’accostamento eretico ‒ ed estetico ‒ al mero resoconto storiografico. Non mi preoccuperò, per intenderci, di smentire la congettura per la quale Il cavaliere polacco della Frick Collection newyorchese sarebbe invero il capo di una setta religiosa prossima ai Mennoniti. Ed eviterò altrettanto i pur pertinenti richiami al secolo d’oro, il miracolo del Seicento olandese scandagliato con perizia da Huizinga.

Ma perché scegliere proprio Il cavaliere? Cominciamo con una rivendicazione d’arbitrio: perché mi pare magnifico. Opinione ben difficile da argomentare, che però ha forse i suoi moventi. Comincerei col trascurare metodicamente il cavaliere ‒ elemento meno seducente ‒ per soffermarmi sull’animale e sullo sfondo. Le striature biancastre sugli arti, che s’annodano ai carpi ed ai garretti ‒ per rimontare poi ai muscoli del muso ‒ fanno del cavallo un quasi-spettro, mesmerica radiografia pittorica di una creatura che pare eccedere la propria incarnazione sensoriale. Potremmo dirlo un magnete equestre, delineato con gesto espressionista secondo un espediente, quello appunto della striatura opalescente a rimarcare i tendini compositivi in figura, che ritroviamo ampiamente nel Greco e che verrà ereditato dai moderni, a cominciare da Sargent ma ‒ soprattutto ‒ Oskar Kokoschka.

Così transustanziato, il cavallo sembra preludere a un evento ulteriore, che solo lui conosce, come se, per insondabile destino, già presagisse un’incombente sciagura. Tornano alla mente le pagine, maestose, de La palude definitiva, dove Giorgio Manganelli descrive il suo accompagnatore, il cavallo ‘psicopompo’ che lo condurrà nella landa estrema, “torbidamente viva”, che è “distesa di liquida esistenza”: il pianeta sensibile e mentale che ha in ostaggio il pensiero e le sue forme. “Mi chiedo se non sia il cavallo dell’apocalisse, e se io stesso, ignaro, non sia il cavaliere della morte finale, dunque non immune alla potenza atroce di un dio, e un dio della conclusione”. O della consumazione, come si direbbe dal putrefarsi del paesaggio, limo infernale e quasi magma, su cui si libra il soggetto della scena.

Ne Il colpo di grazia Marguerite Yourcenar, notoriamente versata per le alchimie dissolutive, si confronta con il dramma del dipinto: «Quando penso a quegli ultimi giorni di vita del mio amico mi vien sempre fatto di evocare un quadro poco conosciuto d Rembrandt che un mattino di noia e di tempesta di neve mi fece scoprire per caso qualche anno dopo alla Galleria Frick di New York, dove mi parve un fantasma munito del cartellino con il numero e inserito nel catalogo. Quel giovane uomo ritto su un cavallo pallido, quel viso insieme sensibile e selvaggio, quel paesaggio desolato dove la bestia allarmata sembra fiutare la disgrazia, e la Morte e la Follia infinitamente più presenti che nella vecchia incisione tedesca se per sentirle vicinissime non si ha nemmeno bisogno del loro simbolo…».

Ancora una volta ci si sofferma sul fondale, impeciato nell’ombra, fosco e modernissimo, come una coltre d’argilla fumigata, strofinata con trementina e morchia. Potrebbero essere i sedimenti, impastati, di Fautrier o Dubuffet, ma è invece pittura secentesca.

Com’è possibile? È solo questione di punti di vista. Lo spiega egregiamente Didi-Huberman nel suo libro sul Beato Angelico. Figure del dissimile. L’intuizione che lo regge è semplice ma micidiale. Camminando in un corridoio del convento di San Marco a Firenze, Huberman rimase colpito da “due o tre cose sconcertanti dipinte nel Quattrocento”, “cose” inaspettate, di quelle che non ci si aspetterebbe di trovare in un catalogo sull’arte rinascimentale. “Queste due o tre cose sconcertanti, difficili da descrivere e assolutamente peculiari se paragonate al severo candore del convento, erano macchie pittoriche, ampie zone di macchie multicolori rispetto alle quali le nostre abituali categorie di ‘soggetto’, imitazione e figura sembravano essere inadeguate”.

Ecco, per Rembrandt è lo stesso. L’atroce ‘magnetismo’ del Cavaliere polacco non si deve al suo ipotetico contenuto oggettivo, tanto che non sappiamo nemmeno se si tratti effettivamente di un cavaliere polacco. A far breccia, ad irretire lo sguardo è piuttosto l’insondabile potenza dello stile: l’ipnotismo funereo del cavallo, che si staglia su quell’agglomerato di macchie e zolle liquefatte, è tanto poco una collina con fortino quanto la Saint Victoire di Cézanne può essere detta semplicemente una montagna.

 

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