Il linguaggio ingannevole. Termini utilizzati colloquialmente che si intrufolano attraverso le fessure della nostra vita quotidiana, senza che quasi ce ne rendiamo conto. Impregnano le notizie con le quali ci bombardano i mezzi di comunicazione e alimentano la discussione economica e politica dominante. Termini che si accettano e scambiano come se denominassero principi e verità evidenti e incontrovertibili. Questo linguaggio ha contaminato tutto, ma in pochi ambiti sono entrati con tanta forza come in quello del lavoro, dove prevale in maniera spaventosa.

Senza pretendere di citare tutti i termini, ecco qualche appunto sul ‘mercato del lavoro’:

Espressione che ignora il lavoro che si svolge fuori dal mercato e dalle relazioni commerciali. Come quello realizzato in ambito familiare, del quale si fanno carico ancora in maniera maggioritaria le donne. Lavoro non remunerato e spesso disprezzato, ma decisivo per la riproduzione della forza lavoro che offre le proprie capacità di lavoro al mercato; di conseguenza, fondamentale per il funzionamento dell’ingranaggio capitalista.

Si fa passare allo stesso modo la convinzione che il mercato del lavoro sia assimilabile agli altri mercati in cui operano domanda e offerta. Attenzione, non sottovalutiamo questo nuovo inganno. Attraverso questo concetto, infatti, si suggerisce che i mercati veri e propri, quelli che prevalgono nel capitalismo, siano governati dalla competenza, dalla legge di chi compra e chi vende, in cui nessuno degli attori può influenzare la sua configurazione in maniera decisiva e duratura. E questo si afferma, e si insegna in buona parte delle facoltà di economia, in un universo imprenditoriale dominato dalle grandi corporazioni e dalle imprese transnazionali, caratterizzato da una formidabile concentrazione di poteri (e ovviamente anche di ricchezza).

Bene, il ‘mercato del lavoro’ deve configurarsi come il resto dei mercati (convenientemente idealizzati dalla scuola dominante). Ma si dà il caso che questo mercato sia speciale, e per questa ragione non sia un mercato nel senso stretto e certamente non è in assoluto equiparabile ad altri mercati che funzionano in regime di competitività perfetta o, cosa più diffusa, in condizione di oligopolio: ci sono persone e progetti vitali in ballo, il lavoro è la fonte di entrate principali e la maggior parte delle volte anche l’unica entrata di coloro che ricevono il salario e intorno agli spazi lavorativi si esercitano diritti essenziali, che, oltre ad essere cruciali per il funzionamento dell’economia, hanno bisogno di una regolamentazione pubblica che permetta l’esercizio dei diritti associati al lavoro.

Molti altre frasi fanno parte di questo discorso ingannevole e ambiguo: rigidità lavorativa, flessibilità, moderazione salariale, tagli all’organico, inefficienze istituzionali e decentralizzazione della negoziazione collettiva, per citare quelli più utilizzati. Ci saranno altre occasioni per riflettere su questi. Non mancheranno occasioni per continuare a riflettere sul loro vero significato. Ora non ci resta che insistere nel dire che questi termini rappresentano un vero carico contro i diritti storici dei lavoratori, acquisiti a caro prezzo e drammaticamente.

di Fernando Luengo (Professore di Economia Applicata all’Università Complutense di Madrid e membro del collettivo Econonuestra)

(Traduzione dallo spagnolo: Alessia Grossi)

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