C’è chi muore per un’idea, è successo 15 anni fa all’anarchica Soledad Rosas, suicida in carcere dopo un processo imbastito contro i primi No Tav. C’è chi si batte fisicamente per un’idea, succede in Turchia, in Grecia, dove giovani e meno giovani sfidano le forze dell’ordine. C’è chi ammira chi ci mette la faccia, come si suol dire, basta che lo faccia a casa sua: perché quando gli studenti vengono manganellati in Italia allora no, allora sono Black Block e delinquenti.

C’è chi combatte scrivendo e per quello che scrive viene perseguitato, deriso, offeso e pure arrestato. E poi c’è chi confonde il “metterci la faccia” con l’andare dal visagista. Bella definizione che ho letto sul web. La rivoluzione è una cosa seria ma parola abusata, la critica feroce è battaglia rischiosa, non la puoi fare a metà. Cosa vuol dire però metterci la faccia?

Quello infondo, in quest’era narcisista lo facciamo tutti. Anzi, c’è la corsa a poter mostrare la propria faccia. La rivoluzione, quella vera, ma quella vera veramente è non delegare ai Messia, ai leader mediatici, ma rivoluzionare te stesso. Non appartenere a nessuna faccia o dottrina ma essere, sul serio: questa è la sfida. Non basta un visagista, non basta una buona penna, non basta un cannone: o sei o appari. Senza mezzi termini e pagandone lo scotto.  

Così come fanno i movimenti di lotta per la casa, quelli contro gli sgomberi, così come fa chi lotta contro i Cie, contro il Tav e il Muos ed è sempre, davvero dalla parte giusta della piazza (che di solito non è il palco di chi arringa).

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