Possiamo raccontare la fortuna di averlo avuto, mentre intorno non lo trovi. Ci ha lasciato un milione di strade, ma ne avessimo trovata una. Ci ha lasciato nelle parole vie di fuga e di ritorno, mentre noi stiamo ancora appesi all’albero di albicocco che prese in prestito per salutarci. Chi è stato Alex Langer? E’ stato molto e molti. Per qualcuno di noi il miglior politico che questo Paese di mezzi poeti e truffatori abbia mai avuto. Aveva scelto la politica di professione come segno più alto della generosità e qualcuno dovrebbe prendersi la briga di imitarlo. Potrebbe smetterla di dire fandonie, creare consorzi clientelari, adeguarsi alla vita romboide delle terrazze e dei palazzi.

Adriano Sofri, che di Langer è stato amico alla pari, dice che sia stato il più impolitico. E’ vero solo in parte: non era classe politica, ma faceva politica, nel garbo, nella generosità, nelle massime espressioni di impegno. Lunatici lo furono quegli anni, quel ventennio e passa, che dalla fine degli anni Sessanta ha accompagnato questo Paese fino a Tangentopoli. Langer, in quelle notti in cui non si vedeva un accidente, è stato quello che ha visto tutto e prima di tutti. Ha capito che si potevano avere cento vite in una sola, ha guardato oltre i confini quando ancora ti fermavano alla frontiera, ha vissuto sulla sua pelle i conflitti etnici, è andato a prendersi i proiettili a Sarajevo purché ci fosse in fondo al viale quella parola che più si avvicina alla pace. Aveva capito, con vent’anni d’anticipo, che il cuore della traversata che ci sta davanti è probabilmente il passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse è già troppo”.

Probabilmente oggi lo ascolterebbero con rispetto. Quando negli ultimi anni della sua vita scrisse la lettera lettera a San Cristoforo lo guardavano come un pazzo che portava in giro maglioni troppo larghi per essere credibile e sognava ponti che il governo italiano, nell’ex Jugoslavia, aveva contribuito a buttare giù. Ci vuole una cosa che non tutti hanno per essere un pacifico odiatore delle barriere etniche e razziali. Ci vogliono argomenti perché la violenza non ne scateni altra. Questo Langer ce l’ha fatto vedere. Nessuno creda di averne ereditato un briciolo: la sinistra libertaria che incarnava non esiste più, forse non è mai esistita se non negli occhi di qualcuno. Non esiste più l’ambientalismo, perché gli italiani, al contrario di quello che è accaduto nel resto dell’Europa, sono riusciti a disperdere anche questo.

Raccontare chi fosse Langer è un esercizio complicato perché la sua intelligenza era sfuggente e le sue vite erano troppe, simili, certo, ma sempre in affanno. Non so come si chiamasse quello che cercava, ma si avvicinava di più all’idea che avrei voluto aver ben delineata, prima di lasciarmi soffocare dal quotidiano. Lo abbiamo letto, chi ha avuto la fortuna di poterlo fare, lo ha anche ascoltato. Ma cosa ci resta intorno oggi? Poco, perché in questo Paese l’intelletto applicato alla politica è diventato una malattia grave.

A volte sentiamo il peso di combattere ragioni che sono distanti. Langer è riuscito a farlo. Almeno fino al 3 luglio del 1995, quando ha scelto un albero di albicocco per spiegare che i pesi gli erano divenuti insostenibili. Una cosa ci lasciò in eredità, un messaggio che ogni tanto risuona come alcuni passaggi della Bibbia: continuate in ciò che era giusto. Lo hanno fatto in pochi. Edi Rabini, sicuramente, che di Langer fu amico, fratello maggiore e minore. Lo ha fatto Riccardo Dello Sbarba, toscano di Volterra, consigliere provinciale a Bolzano dei Verdi. Lo hanno fatto a modo loro, per un periodo, anche Adriano Sofri e Guido Viale, due che Langer lo hanno conosciuto ai tempi di Lotta continua e che subivano il fascino intellettuale di quel ragazzo che pareva arrivato a Firenze con il fango dell’alluvione e si ostinava a camminare scalzo. C’è chi lo fa scrivendo poche inutili righe, ma perché gli arrivano da un posto dove la disonestà e la smanceria sono vietate.

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