Siamo onesti: abbiamo un patrimonio monumentale, archeologico, artistico, ecc. ben superiore alla capacità di saperlo adeguatamente conservare e gestire. Dagli scavi di Pompei a rischio crolli ai violini del ‘600 e ‘700 trafugati dal Conservatorio di Palermo (con sospette complicità interne) è un continuo grido d’allarme e di dolore dall’Unesco sino a chi, pur senza particolari titoli, nutra un minimo di sensibilità per ciò che abbiamo -forse indegnamente- ereditato. E le critiche condizioni della finanza pubblica non fanno ben sperare in un cambiamento di rotta. Le risorse servono, come al solito, a pagare al massimo gli stipendi mentre chi lavora nel settore pretende di farlo in funzione della comodità propria, più che del visitatore che si ritrova troppo spesso monumenti chiusi o con orari impossibili.

Il concetto di “giacimenti culturali” è stato coniato qualche anno fa e rende bene l’idea di quanto l’Italia sia un Paese povero di materie prime, ma ricco di monumenti, opere d’arte e bellezze paesaggistiche e naturali che i temibili cinesi, a differenza di molti prodotti industriali, non potranno mai imitare. Rappresentano quindi un vantaggio competitivo da sfruttare con intelligenza. Cosa fare allora?

Si potrebbe, per esempio, guardare le cose da un diverso punto di vista: quali sono le priorità assolute? La prima è senza dubbio preservare e conservare tale patrimonio per le generazioni future e questa responsabilità non potrà che essere interpretata e dettagliata da un’autorità pubblica come le Soprintendenze ai Beni Culturali. Poi c’è la fruizione per gli studiosi e per il pubblico, da assicurare con le dovute garanzie. Oggi la gestione di questo patrimonio rappresenta più che altro un costo per la collettività, nettamente superiore agli introiti delle biglietterie sia in mano pubblica che dei privati concessionari. Se il risultato di questa impostazione seguita sinora deve essere quello del degrado, dell’incuria, della sparizione di pezzi pregiati, della inaccessibilità di tanti monumenti, non sarà il caso di cambiarla con coraggio, prima che sia troppo tardi?

Penso alla Sicilia che è un laboratorio ideale di sperimentazione per le prerogative del suo Statuto autonomistico che le conferisce pieni poteri in materia. Ferme restando quindi le prerogative delle Soprintendenze a tutela del patrimonio culturale, si potrebbe pensare ad una cessione in blocco, in regime di concessione, dell’intero patrimonio isolano -quindi non solo dei pezzi migliori- ad un operatore che fornisse adeguate garanzie patrimoniali e professionali per la sua migliore gestione e fruizione?

Dubito che possa trattarsi di un operatore domestico, penso più ad una multinazionale o ad un fondo sovrano che potrebbe cogliere queste opportunità:

1. la Sicilia è un parco tematico vero, a differenza di quelli artificiali che si creano in giro per il mondo in funzione dei flussi di visitatori;
2. ha un clima favorevole, il mare, le isole minori, un entroterra suggestivo e ancora poco conosciuto, una cucina ricca di sapori;
3. è al centro del Mediterraneo e delle sue principali antiche civiltà che ha conosciuto direttamente: fenici, greci, romani, bizantini, ebrei, arabi;
4. cui si aggiunsero poi -tralasciando i barbari- i normanni, gli angioini, gli spagnoli, i piemontesi, fino all’ultima invasione manu militari degli anglo-americani nel ’43;
5. non ci sono operatori professionali competenti ed efficienti, sia in ambito pubblico che privato: quindi, poca concorrenza.

Le potenzialità, però, di per sé non bastano per determinare un investimento impegnativo quale quello di cui stiamo parlando: servono ben altri incentivi. Un problema noto che induce gli investitori a scartare l’Italia è quello della materia dei contratti e della giustizia civile. Poiché non possiamo aspettare (anche perché è chiaro che manchi la volontà) riforme invocate da decenni, si potrebbe offrire all’investitore di fruire di una sorta di extraterritorialità giuridica, avvalendosi nei contratti, nei giudizi civili e negli stessi rapporti di lavoro di un ordinamento e di una macchina della giustizia valutati, in modo condiviso e in termini oggettivi, più efficienti dei nostri (un po’ di sana concorrenza!).

(Continua)

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