L’economia cinese sta crollando? È di fronte a una crisi simile a quella innescata cinque anni fa dai mutui subprime negli Usa e poi allargatasi a tutto il mondo? Gli allarmi si sono ripetuti nell’ultima settimana, dopo le notizie secondo cui la Banca centrale cinese starebbe preparando un vero e proprio salvataggio delle banche in stile Usa 2009. Intanto, le Borse calano a ruota di Shanghai, giù in questi giorni di un buon 20 per cento rispetto allo scorso maggio. In realtà il problema esiste, ed esiste da tempo, ma non è ben chiaro se sia sfuggito di mano.

I fatti. Da circa una settimana, il mercato interbancario cinese è sotto stress. I tassi d’interesse sono schizzati fino alla doppia cifra, il che ha lasciato intendere che ci sia una crisi di liquidità in corso: le banche cercherebbero disperatamente di avere crediti dalle loro simili. La People’s Bank of China non ha rilasciato nessuna dichiarazione pubblica, le voci di default si sono diffuse e qualcuno ha cominciato a parlare di un caso Lehman Brothers in salsa di soia.

Martedì 25 giugno l’ufficialissimo Quotidiano del Popolo si è sbilanciato dicendo che la Banca centrale non è una “balia” costretta a salvare il mercato. Il problema è che in Cina circola tanta liquidità, ma circola male. Lo Stato, attraverso le banche pubbliche oggi nell’occhio del ciclone, eroga denaro che finisce in investimenti speculativi o, comunque, improduttivi. Una massa che, oggi si dice, ha ormai raggiunto il 200 per cento del Pil ed è in costante crescita.

Dietro, ci sono sia i debiti aziendali sia quelli dei governi locali. Le imprese cinesi, che hanno alimentato il boom basato sull’export degli ultimi trent’anni, sono oggi in difficoltà per la riduzione degli ordini dall’estero. I piccoli imprenditori chiedono prestiti per stare a galla. Dato che le banche difficilmente glieli concedono, loro ricorrono a crediti informali concessi da altri soggetti privati. Tale denaro non produce però più profitti, serve solo a tenere in vita piccole imprese che producono merci a basso costo non più commerciabili. A conferma arrivano gli ultimi dati sull’attività manifatturiera: il Purchasing Managers Index (Pmi) di giugno è sceso a 50,1 punti dai 50,8 di maggio (un risultato inferiore a 50 indica che non c’è crescita del settore).

In parallelo c’è il problema dei governi locali, che hanno da parte loro la necessità di erogare la maggior parte dei servizi sul territorio e che sono cronicamente in rosso. Ottengono così credito dalle banche, che finisce però inevitabilmente in progetti infrastrutturali e in grandi speculazioni immobiliari, fallimentari nel dare alla Cina una struttura economica efficiente sul lungo periodo.

Il tratto comune consiste nel fatto che in entrambi i casi i soldi arrivano quasi sempre dalla stessa fonte: le banche di Stato, appunto. Perché? Perché chi ha accesso a tale credito – amministratori locali e businessmen con i “canali giusti” – tende a gettarlo nel buco nero della speculazione immobiliare: la ricetta sicura, il bene rifugio. Tutto ricade quindi sulle spalle degli istituti di credito che ora, pare stiano adottando tecniche finanziarie d’importazione piuttosto avventate per prestarsi soldi e coprirsi i buchi a vicenda.

Il governo di Pechino reagisce anche politicamente: negli ultimi tempi è stata accentuata la campagna anticorruzione e il presidente Xi Jinping non lesina certo richiami alla “pulizia” degli amministratori. Alcuni procedimenti giudiziari hanno recentemente preso di mira banchieri eccessivamente “disinvolti”.

Ma l’appello a una moralità più elevata non funziona senza una solida base materiale. Il problema è la trasformazione dell’intero sistema produttivo cinese: convincere cioè chi maneggia denaro a investirlo in innovazione, prodotti ad alto valore aggiunto, attività competitive; che restituiscano profitti. Perché ciò si verifichi è necessario tempo, mentre la stretta del credito incombe. Non è escluso quindi che Pechino si adoperi nel frattempo in qualche salvataggio mirato di banca boccheggiante, magari preventivo.

di Gabriele Battaglia

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