“Qualunque cosa, bellissima o bruttissima, lascia sempre un po’ di sé negli occhi di chi guarda. E’ risaputo. Del resto, è proprio da questo che si riconoscono, l’estrema bellezza o l’estrema bruttezza: da quello choc, da quella briciola che resta”.

Questo dialogo di un libro noir di Fred Vargas (“Un luogo incerto“, edizioni Einaudi 2009) mi è tornato in mente quando mi sono trovata davanti le immagini di “The enclave“, la straordinaria installazione video del trentatreenne artista irlandese Richard Mosse, presentata alla Biennale 2013 nel padiglione Irlanda. “The enclave” è un’opera su sei schermi, realizzata con Super 16mm, una pellicola a infrarossi sviluppata negli anni ’40 per svelare la mimetizzazione a scopi militari e ormai in disuso dal 2009, anno in cui Mosse ha iniziato ad adoperarla.

Richard Mosse: The Impossible Image from Frieze on Vimeo.

Una terra fantastica, irreale: di questo sembra raccontare “The enclave“. E invece si tratta del Congo orientale. Di quel pezzo di mondo corrotto e martoriato da una guerra civile infinita, cruenta, dimenticata, che ha causato più di cinque milioni di morti dal 1988. “Un conflitto che coinvolge più di venti diversi gruppi di ribelli, c’è un vero stato di anarchia, non ci sono leggi – dice Mosse intervistato dal Biennale channel – è un conflitto molto disturbante che si esprime in atti veramente orribili, come le violenze sessuali e i frequenti massacri di civili”.

Attraverso l’uso della pellicola a infrarossi, Mosse ottiene scatti sbalorditivi, rendendo visibile una luce altrimenti impossibile da percepire per l’occhio umano: la dicotomia che si crea tra le svariate tonalità di rosa del paesaggio e la disperazione delle scene di guerra, vive, reali e violente, che si compiono in quella stessa cornice è destabilizzante, capace di imprimersi realmente nella memoria di chi guarda.

Mosse ha viaggiato varie volte in Congo e con “The enclave” vuole riuscire a attirare l’attenzione su quel che accade in questa terra tormentata, realizzando un’installazione che mescola il reportage giornalistico con l’immaginazione e portando tutto a un livello sospeso: “Non è un modo di fare la guerra “tradizionale” e per questo ho scelto di trattarlo in maniera diversa dal solito – continua Mosse – perché credo che il classico stile in bianco e nero granuloso alla Robert Capa forse non sia più capace di rendere l’idea di queste tragedie. La gente non le vede più”.

Così, Mosse cerca di “rendere visibile l’invisibile”, a più livelli. Di restituire consapevolezza e aprire il campo alla riflessione. In queste zone bellissime svilite dalla guerra, si percepisce “la tensione tra etica ed estetica, che cerco di far pesare sullo spettatore”, dice Richard. E ci riesce, facendo leva su quella che il poeta irlandese Yeats chiamerebbe “bellezza terribile”.

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