Un hotel del centro di Milano. Non lontano da piazza Duomo. Albergo di turisti. Stranieri, per lo più. E così nessuno fa caso a quel gruppo di georgiani, vestiti con abiti firmati. Scendono da berline scure e si confondono nel via vai davanti alla reception. E’ il primo dicembre 2011. Saranno una decina. Tutti sono lì per partecipare a una skhodka (summit). Sì, perché loro non sono semplici turisti, ma vory v zakone (ladri in legge), capi indiscussi della mafia russa. La storia inizia così. Ed è una storia mai raccontata. Un’inchiesta, coordinata dalla Procura di Bari, che con i 15 arresti di questa mattina mette nero su bianco affari, interessi, equilibri di un’organizzazione criminale che ha scelto il nostro paese per investire e riciclare. In quasi 300 pagine di ordinanza il gip ripercorre le vicende di un conflitto. Quello tra il clan Kutiasi, capeggiato da Merab Dzhangveladze detto Jango e il clan Tblisi-Rustavi guidato dai fratelli Shushanashvili. Un conflitto che ha un obiettivo chiaro: ottenere il monopolio nella gestione della obshak (cassa comune dei clan). Un vero e proprio tesoro che nel 1996 sfiorava i 150 milioni di dollari, mentre secondo l’ultimo rapporto del 2010, quella che la ‘ndrangheta chiama ‘bacinella’, conta miliardi di dollari. Tanto per capire: attualmente in Russia si ritiene operino novemila gruppi o cosche, con un esercito di centomila uomini e ben 3 milioni di fiancheggiatori.

Torniamo allora nel lussuoso albergo milanese e alla skhodka. La riunione si è resa necessaria per dirimere una controversia nata qualche settimana a Bari. Protagonista è Revez Tchuradze, detto Rezo. Nel capoluogo pugliese l’uomo gestisce un’agenzia di spedizioni verso la Georgia. L’affare è lucroso, perché su ogni pacco spedito Rezo ci guadagna una tangente. Rezo è uomo del clan Kutiasi. Non è un ladro in legge. La sua carica è quella di autorità criminale. Il business, però, rischia di svanire a causa di alcuni contrasti con un’altra agenzia riconducibile alla cosca rivale. Ne scaturisce un diverbio. Meglio: un aggressione che si conclude con l’accoltellamento di un uomo del clan Rustavi. Il fatto avviene nel luglio 2011. Pochi mesi dopo, a Milano, il summit si rende necessario per pacificare lo scontro. Da qui la presenza di Rezo. Il vertice, però, non otterrà l’effetto sperato. Rezo, infatti, verrà ucciso in piazza Moro a Bari il 6 gennaio 2012. I killer sparano due interi caricatori. Le intercettazioni successive all’agguato chiariscono meglio il quadro. Il gip le riassume in una veloce carrellata: “L’assassinio di Rezo equivale a una dichiarazione di guerra (…) Tutto si può risolvere ma non quello che è successo (…) Ci hanno ammazzato un uomo come un maiale (…) Lui che era uno dei nostri e aveva la vita come quella nostra”.

E così l’omicidio di Bari servirà ai magistrati come cartina di tornasole per delineare meglio le dinamiche della mafia russa, sia all’interno che all’esterno seguendo il business del riciclaggio in tutta Europa, Italia compresa. La lente delle investigazioni si stringe e si allarga seguendo le vicende di questa faida. E così da Bari si arriva a Mosca il 16 gennaio 2013, giorno in cui un cecchino imbracciando un kalashnikov uccide con otto colpi il capo storico del clan Rustavi. Soprannominato nonno Hassan, il boss viene colpito nel suo quartier generale, mentre sta uscendo da un locale. Per anni aveva goduto della protezione del Cremlino, che tutelando lui sperava di potere mantenere intatta la pax mafiosa. Di nuovo le intercettazioni svelano il mandante in Jango, il quale, al telefono con un suo uomo in maniera ironica ricorda le parole dello stesso boss ucciso, il quale andava dicendo che se i Kutiasi fossero entrati a Mosca “la città sarà schizzata di sangue”. Tre giorni dopo viene ucciso un luogotenente di Jango.

Perché l’Italia? Commenterà un boss: “A Mosca tanti ladri in legge insieme non avrebbero potuto camminare”. E allora ecco il nostro paese come obiettivo. La mafia russa arriva. Non da oggi, naturalmente. S’infiltra senza fare rumore. Stringe patti con i clan italiani. Tanto da trovare accordi “con i calabresi” per organizzare in casa loro un summit. Stanno a Bari. Ma hanno basi operative in Lombardia, nel comune di Pioltello. A Roma, invece, Jango e la sua batteria può contare su “rifugi presidiati”, conosciuti da pochi e difesi in maniera militari con un rigoroso controllo del territorio. Alcuni sono stati scoperti a Guidonia, tra i villini di lussuosi complessi residenziali.

Questa la storia alla quale la Procura di Bari avrebbe voluto dare la precisa connotazione giuridica del 416 bis. Così non sarà. La richiesta, infatti, è stata respinta dal gip che ha riqualificato il capo d’imputazione in associazione a delinquere semplice. In fondo, però, è solo un particolare che ben poco spazio toglie alla figura di Merab Dzhangveladze detto Jango “un uomo di potere – ragiona il giudice – con notevolissime disponibilità economiche (…)”. Tanto per capire: in Italia gira con un Mercedes 5000 cc classe S. Il dono di un amico influente.

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