Da “Yes We Can “ a “Yes We Scan”. Potrebbe essere sintetizzata così la parabola di Barack Obama, che durante la campagna presidenziale del 2008 arrivò in Europa, a Berlino, attirando 200mila fans. E che oggi torna in Europa, per il vertice del G8 in Irlanda del Nord, sull’onda di problemi interni non risolti, crisi internazionali sempre meno gestibili e soprattutto una fama di “uomo d’ordine” ben lontana dalle vecchie speranze di cambiamento. Non a caso il presidente, al suo arrivo a Belfast per la riunione del G8, ha preferito affrontare un tema “neutro”, privo di pericolose ricadute politiche: quello della pace. Ai giovani della città, Obama ha detto che “la gente dell’Irlanda del Nord ha scelto la pace. Questo è quello che i vostri nonni e i vostri genitori sognavano per voi: godere di una giornata di sole senza violenza, fare amicizia e innamorarvi di chi vi pare”.

L’oratoria politica non sembra però in grado di far dimenticare un dato ormai ampiamente accettato da molti osservatori Usa, e da buona parte degli stessi elettori democratici: e cioè che la presidenza Obama, salutata come un momento storico nella lotta per il cambiamento – “il primo afro-americano alla Casa Bianca” –, si sia trasformata in un periodo segnato dalla supremazia incondizionata dei temi della sicurezza nazionale. I casi sono ormai troppo numerosi per far pensare a un semplice caso. Guantanamo non è stato chiuso, come promesso durante la campagna elettorale 2008. Anzi. Nel carcere cubano sono in corso processi che, come originariamente voluto da George W. Bush, seguono un percorso di assoluta segretezza e scarso diritto alla difesa per gli imputati. Decine di giornalisti di Associated Press sono stati spiati dal governo, soltanto per aver rivelato un’operazione della Cia nello Yemen. Migliaia di persone sono state uccise, e continuano a esserlo, dalle operazioni con i droni in Afghanistan, Pakistan, Yemen. E la Casa Bianca di Obama si è appellata come nessuna amministrazione precedente all’“Espionage Act” del 1917, un’antica legge votata in tempo di guerra che è servita all’amministrazione per perseguire con la massima durezza quei funzionari governativi che hanno passato notizie ai giornalisti.

Lo scandalo della National Security Agency, con le rivelazioni sulla rete capillare di spionaggio e intercettazioni svelato dal quotidiano “The Guardian” attraverso la “talpa” Edward Snowden, è soltanto l’ultimo e più clamoroso episodio della supremazia che i temi della sicurezza e del controllo hanno avuto negli ultimi cinque anni. La storia di queste ore, con la rivelazione di come al G20 di Londra del 2009 Gran Bretagna e Stati Uniti spiarono leader e delegazioni straniere (sino a creare falsi Internet point per impossessarsi di password e informazioni riservate degli ospiti), è fatta per imbarazzare ulteriormente il presidente americano. In questo caso, infatti, non sono stati i sospetti terroristi a essere oggetto di controlli e invasioni della privacy. Gli oggetti dello spionaggio Usa sono stati politici, diplomatici, personalità di governi spesso amici, che – mostrano i documenti – sono stati intercettati per poter essere manipolati nei successivi meeting. “Obama non ritiene che la privacy degli americani sia stata violata”, ha spiegato ieri Denis McDonough, capo staff della Casa Bianca. La tesi non sarà facilmente sostenibile davanti ai capi di stato e leader mondiali riuniti in Irlanda del Nord.

Se il capitolo diritti civili appare troppo simile a quello del vecchio nemico Bush, e tale da offuscare la “stella” di Obama a livello internazionale, la strategia politica interna non pare capace di fornire il rilancio sperato. Il presidente ha perso la battaglia per una nuova legge che limiti vendita e uso delle armi da fuoco. La legge sull’immigrazione, più volte annunciata e data per sicura, continua a trascinarsi stancamente tra le aule di Camera e Senato, soggetta a diktat e veti dei repubblicani. Nelle ultime ore Obama ha dovuto incassare un’altra parziale sconfitta: quella sulla Siria (che sarà uno dei temi più caldi affrontati durante il vertice del G8). Per mesi Obama è stato assolutamente contrario a un coinvolgimento ad alto livello nel conflitto. Il suo obiettivo, come ha spiegato il vice-consigliere alla sicurezza nazionale, Benjamin Rhodes, era quello di tirarsi fuori dalle guerre in Medio Oriente, non di iniziarne altre”. Poi, in settimana, dopo il rapporto sulle armi chimiche presumibilmente utilizzate dal regime di Assad, il presidente ha cambiato idea e dato l’ok a un limitato invio di armi ai ribelli. Fonti della Casa Bianca suggeriscono che la decisione di Obama sia stata particolarmente caldeggiata da settori del Dipartimento di Stato e dall’ex-presidente Bill Clinton, oltre che dagli alleati Francia e Gran Bretagna. Ciò non toglie che Obama “precipiti” nel conflitto siriano a malincuore, senza entusiasmo, carico di dubbi per quello che può succedere nei prossimi mesi.

Un sondaggio Cnn delle ultime ore mostra che l’indice di popolarità di Obama è crollato al 45%, otto punti in meno soltanto nell’ultimo mese. Più che i numeri e le percentuali, ciò che preoccupa il presidente e il suo staff, a questo punto, è però un’altra cosa: passare i restanti tre anni della presidenza tra scandali, accuse, inchieste internazionali e riforme fallite.

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