In un articolo di ampio respiro sulle diverse forme di antispecismo (dai padri fondatori allo specismo etico a quello politico), apparso nel supplemento culturale del Corriere della Sera “La lettura”, di domenica 2 giugno 2013, Ma nessun animale è animalista, Antonio Cairoti argomenta la tesi seguente: è legittimo battersi per alleviare le sofferenze cui l’uomo sottopone gli altri esseri viventi, ciononostante la discriminazione delle specie diverse ha radici profonde nella nostra natura. Le argomentazioni speciste incorrerebbero in una obiezione di fondo riassumibile così: le stesse consuetudini predatorie degli ominidi sarebbero speculari alla loro evoluzione, in quanto il consumo di proteine animali ne avrebbe favorito l’espansione cerebrale e, nel contempo, la pratica della caccia ne avrebbe acuito le capacità cognitive. Ergo, per quanto tutto ciò possa apparire sgradevole se non orribile, la stessa dimensione umana sarebbe stata costruita sullo sterminio degli animali e l’alimentazione carnivora.

Un’argomentazione inaccettabile, che confonde stato di natura e stato civilizzato. Basterebbe rileggere un filosofo come Hegel per le sue considerazioni sulla Bildung ossia sull’educazione-formazione che implica un salto di qualità rispetto alle condizioni meramente naturali. L’uomo incrocia due diversi profili, quello naturale e quello del Geist (spirito), solo il secondo lo rende perfettamente tale.

L’argomentazione specista si fonda su un presunto dato di fatto, per il quale l’evoluzione umana sarebbe caratterizzata in primo luogo dallo sterminio degli animali; questa distruzione di massa dovrebbe configurare l’essenza della natura umana. Sarebbe troppo facile replicare con l’antispecismo politico di Marco Maurizi, ossia sostenere che lo sterminio degli animali e il dominio dell’uomo sull’uomo sono sostanzialmente due facce della stessa medaglia. Ridurre il primo significa anche specularmente arginare il secondo. Dovremmo rinunciare per sempre a questo? Dovremmo attestarci, come suggerisce Cairoti, su una prospettiva più realistica, ossia rassegnarci all’idea che l’equilibrio del pianeta e la salute stessa degli esseri umani dipendano strettamente da quella crudeltà, ora che la scienza ci dice il contrario? L’insorgere di malattie sempre più terribili, non è direttamente proporzionale al consumo sfrenato di proteine animali?

Inoltre, l’equilibrio naturale non viene forse compromesso dalla hybris sopraffattrice dell’uomo?

Allo specismo soft preferisco la radicalità del Canzoniere della morte del giovane poeta salentino Salvatore Toma, suicidatosi all’età di 36 anni, espressa in una poesia straordinaria sul giudizio universale: “E adesso/ voglio dirvi/ cosa penso io della fine del mondo./ Non ci sarà nessuna apocalisse/ nessuna catastrofe colossale/ né un dio decantato/ seduto a un bivio/ che con un cenno studiato della mano/ sotto lingue di fuoco/ e voragini indicibili/ manda a destra e a sinistra/ ora i buoni ora i cattivi/ come una macchina industriale./ Ma la terra si trasformerà/ in un prato verde fiorito/ infinito e gioioso/ pieno di porci e agnelli/ cavalli conigli/ vacche anatre galli…/ e tanti altri animali/ che per infiniti secoli abbiamo violentato ucciso/ mangiato e fatto a pezzi./ Essi sono là/ che ci aspettano…”.

Finché l’uomo non avrà rinunciato a uccidere gli animali, fino a quando “ci rifiuteremo di leggere nei loro occhi i segnali di premonizione e di sofferenza, la nostra politica dell’odio e la distruzione reciproca non avranno fine”, come ammonisce Georg Steiner ne I libri che non ho scritto. Ossia, diventa ogni giorno sempre più chiaro che tra la devastazione sanguinosa degli animali e il cupio dissolvi dell’uomo, la sua autodistruzione, vi è un rapporto diretto, come profetizza lo stesso Toma in un’altra lirica dolente: “…Hai mai visto ammazzare un maiale?/ Muore per sangue che sgorga/ per vita che se ne va/ veramente solo e oltraggiato/ fino all’ultimo momento./ Muore un po’ come te/ solo che lui è nato/ con più fortuna:/ lui ha mangiato erba e ghiande/ come un vero re/e s’è purgato ”.

 

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