Si vocifera, lo si dice sommessamente che questa città, Milano, da troppi anni viaggia a scartamento ridotto. C’era speranza nella rivoluzione arancione ma anche i più speranzosi, oggi, fanno i conti con la realtà. Che è quella della mediocrità amministrativa, del mancato osare, di una visione assente, nel ribaltare più che lo skiline, la linea dell’abitare tutta la città e non solo parte di essa.

Niente di niente: saranno i soldi, saranno le beghe dei partiti, saranno i mille impicci di una burocrazia schizofrenica che dopo avere stritolato i cittadini stritola anche se stessa. Saranno questi ed altri problemi ma rimane il fatto, doloroso e reale, che rispetto alle molteplici gestioni di amministratori di condominio precedenti, l’attuale non sta facendo molto di più.

Incatenato nella patologia della grande città, Pisapia, non ha affrontato in maniera radicale il tema principale di tale patologia: il rapporto centro-periferie. Queste ultime vivono un abbandono ormai da oltre trenta anni. Forse l’ultimo primo cittadino che aveva osato dare una carezza ai margini della città è stato il socialista Tognoli. Il quale, quanto meno, si preoccupò di costruire in alcune di esse spazi culturali e sociali che, la solita burocrazia si incaricò di assassinare anche dal punto di vista terminologico chiamandoli “ centri polifunzionali “.

Altri tempi. Ma oggi che tempi sono? E’ possibile che una città che, a parole ha vocazione europea, sia organizzata come la più arretrata provincia, con una parte vivente, il centro, ed una altra dormiente, la periferia. E’ possibile che forme di policentrismo (come Londra, Marsiglia, Parigi, Berlino, Barcellona e mille altre città di dimensioni eguali e forse maggiori di Milano) stentino ad entrare nella testa dei nostri sindaci perché avviluppati da un centrismo che prima che politico è geografico?

Una miriade di negozi, spazi, luoghi parte rilevante di proprietà del Comune aspettano di vedere (dopo decenni) la riapertura. Erano gli spazi operai e artigiani popolati da uomini e donne che hanno permesso al centro di essere, oggi, il centro. A loro sono stati regalati casermoni moribondi in cui armonia e bellezza erano, con puntuale severità, negati. Sarebbe forse il caso di intraprendere una strada contraria che li sottragga alle sale gioco e ai centri per massaggi cinesi e regali locali, gallerie e negozi in cui sia piacevole entrare e sostare.

Anche i privati potrebbero essere un poco più disposti se si paventasse defiscalizzazioni per chi investe in certi luoghi. Si potrebbe usare la leva burocratica per dare massima celerità e minore severità nelle risposte a chi vuole investire fuori dal centro, ad esempio. Si potrebbe prendere spunto dalla Londra, triste e raccolta, dei primi anni ’80. Che seppe reinventare quartieri perduti con una accorta regia tra mano pubblica e mano privata.

Ma alla base di tutto ci deve essere una conoscenza della città e una visione del futuro. Il mio timore è che manchi l’una e l’altra. E che si perda, ennesima volta, l’occasione di ridare fiato ad una città che merita qualche cosa di più di delibere su birre con bicchieri di carta o di gelati da consumarsi a tempo ( con conseguente smentita d’ordinanza ).

 

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