istanbulIstanbul. Sembrava più una Woodstock sull’erba che una rivolta. Anche se di mazzate ce ne erano state tante. “No pictures, no pictures!”, il coro dei dimostranti si alza dalle barricate. Hanno facce coperte da passamontagna o da maschere di trucco pesante. Non vogliono farsi fotografare per non essere riconosciuti. Uno di loro mi spara in faccia un faro di luce accecante per impedirmi di scattare foto. Vogliono impedire che la loro causa diventi un fenomeno da baraccone per turisti alla ricerca di un brivido da rivolta. Sono davanti a una delle barricate su una delle strade di accesso a piazza Taksim, ancora occupata da migliaia di manifestanti, dove si è creato un ingorgo di auto, tutte respinte. Proviamo un altro accesso, di fianco a una radura di verde scoscesa di Beyoglu, il quartiere residenziale/chic della città con alberghi a cinque stelle e boutique Hermes e Chanel. Alle spalle barricate di detriti di cemento armato, atti di vandalismo ovunque.

E’ da poco passata la mezzanotte, i ragazzi, qualche centinaio, sono seduti sull’erba, ascoltano musica e mangiano kebab. Sembrerebbe un tranquillo sit-in, un accampamento fra amici, invece che una protesta ambientalista finita nel sangue con diverse migliaia di feriti, tre morti (di cui uno ad Ankara) e oltre 1700 arresti (le cifre ufficiali non concordano con quelle fornite da Amnesty International). La situazione è di una calma surreale che non durerà molto. Tutto intorno camionette della polizia, in assetto anti/sommossa, maschere antigas e cannoni d’acqua a portata di mano, la miccia potrebbe riaccendersi da un momento all’altro. Il tassista che mi accompagna ha paura e vuole andare via. Mi dirà poi che la “democratica” televisione turca non ha trasmesso alcuna immagine dei disordini. Da lì a poche ore riprendono proteste e scontri di violenza inaudita. A gettare benzina sul fuoco anche gli ultras delle tifoserie delle tre squadre di calcio della città. Ritorno a piazza Taksim, malgrado due ore e mezzo di traffico paralizzante. Con il taxi arrivo in prossimità dell’albergo W Istambul. La piazza è, più o meno, alle spalle, ma la polizia con aria minacciosa mi blocca, non è possibile proseguire neanche a piedi. Mostro il tesserino stampa. Sono irremovibili.

Intanto la televisione turca governativa continua a fare censura d’informazione. Anche su quella che è diventata l’icona di questa rivolta, la donna in rosso, come l’hanno ribattezzata i media internazionali. La ragazza è inerme, vestitino di cotone rosso e borsetta bianca a tracolla, mentre si accanisce su di lei un militare sparandole addosso un violentissimo idrogetto. La foto ha fatto il giro del mondo. Si chiama Ceyda Sugar ma rifiuta di cucirsi addosso il ruolo di simbolo della protesta: “Siamo stati in tanti a prendere il gas addosso!”. Com’è noto, la rivolta è stata innescata, la settimana scorsa, dalle proteste contro l’abbattimento degli alberi del parco Gezi per costruire uno shopping center. Il ruvido premier Erdogan si è scusato per l’uso eccessivo di gas e lacrimogeni, tuttavia, aggiunge che non vuole negoziare con i rivoltosi. Poi sembra fare qualche concessione. Eppure due comunicati ufficiali emessi lo stesso giorno suonano contraddittori: “Lo shopping mall non si farà. Si costruirà un museo cittadino e si ristrutturerà l’area verde. Sarà migliore dell’attuale”, scrive il Daily News, quotidiano turco in lingua inglese. Mentre la versione sull’Independent inglese è meno accomodante. Il premier Erdogan ha bollato la protesta come “un illegale tentativo di sfida al suo governo da parte di teppisti con il coinvolgimento di terroristi”. Di ieri l’ultimo: “Anche la mia pazienza ha un limite”.

Muhammet Habib ha 26 anni, studia Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all’Università di Bogaziçi. E’ un musulmano ortodosso, si esprime in modo compito e garbato: “Prima ero dalla parte dei manifestanti, adesso non so più… L’uso della violenza continua a essere comunque eccessivo”. La manifestazione, sorta come espressione sincera di giovani ambientalisti, a causa dell’eccessiva repressione ordinata dal premier, si è trasformata in rivolta di piazza. Immediatamente appoggiata dall’opposizione che non ha perso occasione di esibirla come la propria bandiera, nel tentativo di dare una spallata al decennale potere di un premier che si pone in modo sempre più autoritario e che flirta con lo zoccolo duro islamista. Mi fanno notare che le giovani donne velate a Istanbul sono sempre più numerose. Ringrazio Muhammet e gli porgo la mano che rimane nel vuoto. Lui si scusa: “La mia religione non consente di toccare una donna, a meno che non sia una parente stretta”. Chiedo una foto insieme. Accetta di buon grado ma mi ribadisce il concetto: “Basta che non mi tocchi”. Ecco uno dei volti della Turchia. Un paese che vuole entrare a tutti i costi nella Comunità Europea e per il 2020 si candida all’Expo e ai Giochi Olimpici. E’ un’entità unica, che, ancora oggi, come mille anni fa, deve fare convivere il cuore occidentale con l’anima islamica. Un simbolo perfetto è sotto gli occhi di tutti, sull’abside orientale della Basilica di Santa Sofia: ai lati del meraviglioso mosaico bizantino della Vergine, le sure del Corano che inneggiano alla gloria di Allah. L’Arcangelo Gabriele, sotto il grande arco, sembra leggerle alla Madonna. Che sorride, persa nell’oro. Da sotto, uomini e donne di tutte le religioni, lo sguardo rivolto in alto, ammutoliscono davanti a tanta bellezza.

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