Ieri era atteso in aula per deporre e non si è presentato. Oggi il pentito di ‘ndrangheta Nino Lo Giudice è tornato a dare notizie di sè. Con una lettera consegnata all’avvocato Francesco Calabrese dal figlio di Lo Giudice nell’aula del Tribunale di Reggio Calabria, dove è in corso il processo MetaUna busta, contenente un memoriale lasciato dal collaboratore di giustizia prima di abbandonare la località protetta dove risiedeva assieme alla compagna, una extracomunitaria marocchina.

Nella busta, inoltre, c’era una sim telefonica che il collaboratore ha inteso fare avere ai magistrati per dimostrare probabilmente il contenuto del memoriale, composto da 6-7 pagine. In sostanza, Lo Giudice ritratta tutte le dichiarazioni rese alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria dall’ottobre 2010 quando ha deciso di saltare il fosso autoaccusandosi delle bombe piazzate nel 2010 in via Cimino, sede della Procura generale, e sotto casa del magistrato Salvatore Di Landro.

“Mi hanno indotto a fare quelle dichiarazioni, altrimenti mi hanno fatto capire che non mi avrebbero dato la patente di collaboratore“: è questa una delle frasi più forti contenuta nel memoriale. Da ricordare, inoltre, che Nino Lo Giudice è stato anche il principale accusatore del vice procuratore nazionale antimafia Alberto Cisterna. In seguito alle sue dichiarazioni, infatti, il numero due della Dna è stato indagato dalla Procura di Reggio, diretta all’epoca da Giuseppe Pignatone, oggi procuratore di Roma. Un’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Beatrice Rondi, che non ha portato a nulla. Nessun elemento, infatti, è stato trovato in relazione alle accuse di Lo Giudice nei confronti del magistrato Cisterna, indagato in un primo momento per corruzione in atti giudiziari.

Quell’inchiesta, che ha provocato numerose polemiche e scontri tra pezzi della magistratura reggina, è stata archiviata. Molte, inoltre, le contraddizioni del pentito scomparso nell’ambito delle indagine sulle bombe alla magistratura reggina. A partire dal bazooka trovato nell’ottobre del 2010 a duecento metri dal Cedir, sede della Direzione distrettuale antimafia. Un lanciarazzi che secondo il collaboratore avrebbe sparato qualche giorno prima il suo rinvenimento da parte della squadra mobile di Reggio, all’epoca diretta da Renato Cortese. Le perizie disposte dalla procura di Catanzaro, però, avrebbero accertato l’assenza di particelle di polvere da sparo all’interno della bazooka.

Ritornando alla scomparsa di Nino il “Nano“, la sua scelta di collaborare con la giustizia è stata sempre avvolta nel mistero. Non si è mai capito il motivo per il quale il boss della famiglia reggina abbia deciso pentirsi e di autoaccusarsi di una strategia della tensione che, probabilmente, vede coinvolti altri personaggi. Forti sospetti sono stati più volte denunciati dal fratello del pentito, Luciano Lo Giudice, e dal procuratore generale di Reggio Salvatore Di Landro che, sentito in aula durante il processo che si sta celebrando la Catanzaro, ha espressamente manifestato i suoi dubbi circa l’attendibilità del collaboratore di giustizia. Oggi il memoriale consegnato al tribunale di Reggio, e acquisito dal procuratore capo Federico Cafiero De Raho, avvalora i sospetti circa la gestione e la genuinità della sua collaborazione. Pare che nelle pagine scritte dal pentito, quest’ultimo abbia ritrattato tutto e puntato il dito contro alcuni magistrati. Resta da capire se Lo Giudice avesse consegnato questo memoriale al figlio Giuseppe prima di allontanarsi volontariamente dalla località protetta oppure se la lettera e la sim siano stati consegnati nei mesi precedenti con il preciso compito di essere resi pubblici nella momento in cui al collaboratore fosse successo qualcosa di brutto. Tutti interrogativi al vaglio della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.

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