La vita di Stefano Cucchi valeva meno di zero quando lo arrestarono perché era solo “un tossico di merda” e andava trattato come un animale. Vale meno di zero anche la sua morte per lo Stato italiano, rappresentato dai giudici della terza Corte d’Assise di Roma.

Stefano non è morto per le mazzate, indegne di un Paese civile (le prove sono state giudicate insufficienti) dove il diritto alla vita è sacrosanto anche dentro una cella. Non è stato stritolato da un sistema della sicurezza che ormai ha accumulato troppe anomalie, troppi ‘casi’ per non essere messo in discussione. È morto per un tragico errore sanitario. Il suo corpo ha ceduto per “inanizione” (mancanza di cibo). Condannati i medici, quindi, assolti gli altri protagonisti delle ultime, infernali notti di Stefano: infermieri e poliziotti penitenziari.

Non è vero che le sentenze non si discutono: quando sono ingiuste perché contraddicono i fatti e quando la loro ingiustizia getta un’ombra pesante sulla democrazia, si ha il dovere civile di criticarle. Perché in Italia i percorsi della verità sono spesso tortuosi quando si tratta di scavare dentro le colpe degli apparati dello Stato. Ne sanno qualcosa i familiari di Giuseppe Uva, ridotto come uno straccio dopo una notte passata in una caserma dei carabinieri, e quelli di Federico Aldrovandi, 18 anni, morto con il torace schiacciato dai poliziotti che lo avevano fermato a Ferrara. Amnesty International scrisse parole durissime: “I familiari di Aldrovandi in questi anni hanno dovuto fronteggiare assenza di collaborazione da parte delle istituzioni italiane e depistaggi dell’inchiesta”.

Il Fatto Quotidiano, 6 Giugno 2013

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