La prima impressione che mi ha fatto Istanbul è stata quella di essere una città diversa da come la immaginavo. Ci sono paesi o città che assomigliano alla loro immagine che ci si è costruiti nella mente in tanti anni di immagini, racconti, fotografie, letture. Istanbul no, è diversa. Piazza Taksim, che è il suo cuore, è diversa. Ed è diversa perché diverso dall’idea che ne serbavo è il temperamento della gente che la abita. Ho trovato tutti, uomini, donne, ragazzi e ragazze, vecchi e donne anziane, molto più “occidentali” di quanto credessi. Anche nella parte est della città, quella orientale.

Ovunque è un fiorire di locali, bar, pub, discoteche, ovunque ci sono ragazzi con strumenti in spalla, ovunque c’è musica dal vivo e vita. Voglia di divertirsi e di vivere la vita in maniera piena, di dare fondo alle passioni, di conoscere gente, bruciare amicizie o avventure di una sera. E non solo perché è ormai da anni meta ambita degli studenti Erasmus di tutto il mondo, ma anche perché i turchi, mi è sembrato, hanno mantenuto una vitalità ed energia come popolo molto più alte della nostra. L’unica espressione che mi ronzava in testa in quei giorni era “fame di libertà”. Quei ragazzi e quelle ragazze, quegli anziani e anziane negli occhi avevano una luce che altro non era se non fame. Fame per i diritti che vedevano e che credevano di loro proprietà. Questa almeno è stata la mia impressione.

Da ieri sta girando questa lettera che un insegnante turco ha inviato al mondo attraverso Facebook. Una lettera che da un lato denuncia gli avvenimenti e i soprusi che hanno portato ai morti e dall’altro testimonia di questo sovrappiù di energia che lì ho visto con i miei occhi.

“Ai miei amici che vivono fuori dalla Turchia: scrivo per farvi sapere cosa sta succedendo a Istanbul da cinque giorni. Personalmente sento di dover scrivere perché la maggior parte della stampa è stata messa sotto silenzio dal governo e il passaparola e internet sono i soli mezzi che ci restano per raccontare e chiedere sostegno. Quattro giorni fa un gruppo di persone non appartenenti a nessuna specifica organizzazione o ideologia si è ritrovato nel parco Gezi di Istanbul. Tra loro c’erano molti miei amici e miei studenti. Il loro obiettivo era semplice: evitare la demolizione del parco per la costruzione di un altro centro commerciale nel centro della città. Ci sono tantissimi centri commerciali a Istanbul, almeno uno in ogni quartiere. Il taglio degli alberi sarebbe dovuto cominciare giovedì mattina. La gente è andata al parco con le coperte, i libri e i bambini. Hanno messo su delle tende e passato la notte sotto gli alberi. La mattina presto quando i bulldozer hanno iniziato a radere al suolo alberi secolari, la gente si è messa di mezzo per fermare l’operazione.
Non hanno fatto altro che restare in piedi di fronte alle macchine. Nessun giornale né emittente televisiva era lì per raccontare la protesta. Un blackout informativo totale. Ma la polizia si è attivata con i cannoni d’acqua e lo spray al peperoncino. Hanno spinto la folla fuori dal parco.
Nel pomeriggio il numero di manifestanti si è moltiplicato. Così anche il numero di poliziotti, mentre il governo locale di Istanbul chiudeva tutte le vie d’accesso a piazza Taksim, dove si trova il parco Gezi. La metro è stata chiusa, i treni cancellati, le strade bloccate. Ma sempre più gente ha raggiunto a piedi il centro della città. Sono arrivati da tutta Istanbul. Sono giunti da diversi background, da diverse ideologie, da diverse religioni. Si sono ritrovati per fermare la demolizione di qualcosa di più grande di un parco: il diritto a vivere dignitosamente come cittadini di questo Paese.
Hanno marciato. La polizia li ha respinti con spray al peperoncino e gas lacrimogeni e ha guidato i tank contro la folla che offriva ai poliziotti cibo. Due giovani sono stati colpiti dai tank e sono stati uccisi. Un’altra giovane donna, una mia amica, è stata colpita alla testa da uno dei candelotti lacrimogeni. La polizia li lanciava in mezzo alla folla. Dopo tre ore di operazione chirurgica, è ancora in terapia intensiva in condizioni critiche. Mentre scrivo, non so ancora se ce la farà. Questo post è per lei.”

Quando ho letto la lettera mi sono tornati alla mente gli occhi dei ragazze e delle ragazze che ho incontrato a Istanbul, quei loro sguardi colmi di senso di giustizia e di una fame di libertà che in Italia non avevo mai conosciuto.

E mi è venuto da pensare che da noi una cosa del genere semplicemente non sarebbe ancora possibile. Da noi quella fame di libertà semplicemente non c’è. O forse sta appena cominciando a nascere. Certo, non siamo la Turchia, la nostra storia e il nostro presente sono diversi. Eppure anche noi abbiamo le nostre schiavitù. Tutti le conosciamo, tutti le sappiamo nominare. Le nostre schiavitù sono più sottili, e perciò anche più subdole. E inoltre hanno avuto abbastanza tempo per spalmarsi da una élite alla gran parte della popolazione. Si chiamano corruzione, mafia, familismo, illiberalità, schiavitù intellettuale, appiattimento culturale, sudditanza al potere amicale della singola famiglia. In queste condizioni è ancora lontano il giorno in cui nei nostri occhi brillerà la fame di libertà.

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