Sono undici anni che la Cgil pubblica il Rapporto sui diritti globali (ed. Ediesse) ponendo l’accento sul fatto che in un mondo sempre più globalizzato anche la difesa dei diritti dei lavoratori deve essere globale. Il Rapporto si propone come strumento per ripensare l’economia e affermare nuove relazioni industriali, nel segno dell’equità, dell’ecologia, della riduzione degli squilibri tra Nord e Sud del mondo, dei diritti umani e del welfare. Per questo dedica un ampio capitolo alle economie emergenti, i cosiddetti Brics. Ovvero Brasile, Russia, India, Cina, e Sudafrica. Paesi che accanto a rimarchevoli successi sul fronte economico registrano rilevanti contraddizioni interne. Eppure a conclusione di un incontro avvenuto ad aprile 2012 hanno affermato solennemente che “guideranno lo sviluppo dell’umanità”.

Come esempio delle insidie che dovranno affrontare tali nazioni, il Rapporto porta quello del Vietnam. Un Paese che dopo parecchi anni di crescita economica molto sostenuta (8,1% tra il 2003 e il 2007) si trova a rallentare e a scontrarsi con problemi ingenti come inflazione, corruzione, burocrazia inefficiente e disuguaglianze sociali. Problemi che insidiano, anche se in maniera e proporzioni differenti, anche le altre economie dei Brics.

La prima questione che si troveranno a affrontare è quella che gli economisti chiamano the middle income trap, ovvero il fatto che, a un certo punto dei processi di sviluppo di un Paese, la sua crescita rallenta o svanisce del tutto. Dal punto di vista dei Paesi emergenti, questo significa che, raggiunto un certo stadio di crescita, si possa perdere competitività nelle tradizionali industrie labour intensive e non riuscire a trovare nuove fonti di crescita.

Questo punto è stato sottolineato la scorsa settimana anche dal Business Confidence Survey 2013 della Camera di commercio europea in Cina. Il punto sottolineato dal suo presidente, Davide Cucino, era proprio come l’aumento del costo della manodopera sia una problematica seria che vada affrontata aumentando la competitività, diminuendo i monopoli e puntando sulla crescita dei consumi interni.

Anche il Rapporto fa uno specchietto sulla situazione del lavoro in Cina, significativamente intitolato Eppur si muove. Dal 2008 a Pechino e nella regione del Guangzhou il salario minimo è aumentato del 20%. Alcune fabbriche arrivano a offrire ai propri operai specializzati fino a 700 dollari al mese. “A questi ritmi – si chiede chi scrive – quanto tempo dovrà ancora passare perché i lavoratori cinesi guadagnino come quelli di Mirafiori? Pochi anni, probabilmente”.

La Banca mondiale ha ovviamente offerto la sua ricetta alla problematica: privatizzazione delle imprese pubbliche e la liberalizzazione del settore finanziario. Ma forse le economie emergenti stanno pensando di andare in un’altra direzione. I big five sono in cerca di tavoli paralleli. Fin dal momento dell’embargo promulgato dall’Occidente nei confronti dell’Iran, hanno iniziato a utilizzare la loro valuta per gli scambi commerciali. Una prova di forza contro il dollaro e un’affermazione di volontà di cambiare il ruolo marginale che rivestono in seno alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale. È ormai opinione diffusa tra gli economisti, l’idea che la Banca dei mondiale dei Brics costringerà la finanza occidentale a realizzare le riforme necessarie per affrontare le sfide dei nostri tempi.

Ma nel frattempo c’è un problema ancora più grande da risolvere: le limitate risorse fisiche del globo. Come sottolinea Chandran Nair, scrittore indiano citato nel Rapporto, “certamente miliardi di cinesi e di indiani possono aspirare a standard di vita di tipo statunitense. Ma, se tali aspirazioni venissero realizzate, ci troveremmo di fronte a una catastrofe”. Per questo suggerisce la soluzione del constrained capitalism, ovvero un capitalismo limitato che controlli l’uso delle risorse naturali e il comportamento dei consumatori.

di Cecilia Attanasio Ghezzi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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