La giunta Pisapia rischia di pagare un prezzo altissimo alla stagione del rigore. A comandare a Milano è ormai il bilancio comunale. Diventato il vero incubo della maggioranza di centrosinistra e insieme il capro espiatorio per le rivoluzioni mancate nei primi due anni di governo. E la fiamma che il 30 maggio 2011 aveva acceso le speranze di molti milanesi ora trema fioca.

Il sindaco Giuliano Pisapia, va subito detto, resta virtualmente tra i più amati d’Italia, al decimo posto e al primo tra le città metropolitane. Anzi, nel secondo semestre del 2012 secondo i dati elaborati da Data Monitor diffusi lo scorso marzo il suo indicice di gradimento è salito di cinque punti attestandosi a quota 61,2%. E tuttavia il giudizio dei milanesi sull’operato della sua amministrazione inizia a farsi fortemente critico, carico di domande e scarico di fiducia. Chi ha votato per il cambiamento segnala il venir meno della partecipazione dal basso che era stata promessa, l’insofferenza crescente per gli eterni problemi della viabilità, l’ingombrante presenza di un Expo che la città non sente. E ancora le periferie-fionda che sembrano allontanarsi dal centro e poi rigurgitare con violenza sul portone di Palazzo Marino i loro problemi irrisolti, dalla sicurezza dei quartieri al rapporto con i centri sociali e fino alle case polari, recentemente terreno di contestazioni dirette, scontri e malumori verso l’amministrazione. Fino al riemergere del problema sicurezza, con la querelle sul ritorno dei militari in città. 

Due anni dopo, questa la sintesi, Pisapia piace ancora ma la sua “rivoluzione gentile” sembra in affanno. Un giudizio che si riflette nel distinguo dell’ex sindaco Gabriele Albertini: “Pisapia è una persona eccellente, di grande onestà intellettuale e materiale che non risparmia nulla al suo impegno di servizio alla città. Altra cosa è l’analisi delle sue scelte amministrative che sono ipotecate da due questioni fondamentali: la difficoltà di tenere insieme la compagine movimentista dei centri sociali e la sinistra riformista e quelle poste dalla crisi, perché il comandante che governa la nave in tempesta è accusato anche delle onde e del vento”. 

La primavera milanese ritarda i suoi frutti e sui perché si è aperto un forte dibattito. Ultimo a lanciare il sasso, nei giorni scorsi, un fondo del vicedirettore del Corriere della Sera, Giangiacomo Schiavi, dal titolo emblematico: “Milano, un caso di solitudine politica”. E giù l’elenco degli affanni di due anni in cui qualcosa si è visto, ma non quel passo avanti promesso in cambio del voto. Che l’esperienza di Pisapia attraversi una fase delicatissima lo conferm anche Nando Dalla Chiesa, esponente di punta di quella società civile milanese che intorno a Pisapia si è mobilitata investendo grandi le energie. “Una certa delusione si coglie, certo. Ma è anche frutto di aspettative che erano davvero alte e di un cambiamento che dopo vent’anni di politiche di destra richiede tempo. Chi ha sognato che nel giro di due anni Milano si mettesse alla testa della grandi metropoli europee forse ha qualche ragione, perché nella classe dirigente milanese non tutti condividono gli stessi valori, i gruppi di interesse esercitano la loro forza, le burocrazie la loro resistenza e non scordiamoci che crisi e tagli agli enti locali ipotecano buona parte del raggio d’azione di un’amministrazione. E alla fine anche trasformazioni concrete, come il decentramento amministrativo, arrivano più lentamente e con minor impatto di quanto sperato”. Segni tangibili che la svolta c’è stata si rintracciano invece nei valori civici, come la resistenza e la lotta alle mafie, che l’amministrazione milanese con Pisapia torna finalmente a incarnare. “Anche nei fatti, visto che proprio oggi – sottolinea Dalla Chiesa – inizia il processo per Lea Garofalo e il Comune è parte civile”. Ma molto, su più fronti, resta da fare.

I NODI: RUOLO DELLA CITTA’, PROIEZIONE INTERNAZIONALE, CULTURA
Un tema che prende quota è la rilevanza della città, nel contesto nazionale e in Europa. “Milano tace su tutto”, denuncia l’economista Marco Vitale, sostenitore deluso della giunta di sinistra, quasi riabilitando la figura di modesto amministratore di condominio cara ad Albertini. Al sindaco e alla giunta rimprovera oggi l’assenza d’iniziativa, il ripiegamento politico-culturale, l’afonia a livello nazionale sulle grandi questioni a partire dalla politica economica. Silenzio anche sull’appuntamento del 2014, un anno prima di Expo, che dovrebbe realizzare la Grande città metropolitana. I legami con l’Europa vanno indebolendosi, dice. “L’approccio di chi governa la città è sempre più di puro stampo meridionale, piagnucoloso e mai creativo, propositivo, progettuale. E l’Expo ha sempre più la funzione consolatoria che Padre Pio ha avuto per il Sud”.

Anche per il sociologo Aldo Bonomi la Milano di Pisapia è arrivata a un bivio. “Quando si cambia in nome di una visione che parte dalla protesta e chiede cambiamenti radicali si rischia il disincanto, ed è quello che in parte sta succedendo con crescente scollamento tra le due anime che hanno portato il centrosinistra a governare la città, quella sociale e quella borghese, il radicalismo e il pragmatismo. Ecco, quando la vittoria si è fatta potere istituzionale le due anime sono entrate in frizione e forse questo ha frenato alcuni cambiamenti”. Tuttavia Bonomi sprona a recuperare quelle forze perché la sfida non è persa e non è chiusa: “Siamo passati dalla Milano amministrata come un condominio da Albertini al condominio diffuso per la città della Moratti. Ora bisogna recuperare tutte le forze che possono proiettare Milano nella sua terza dimensione: la metropoli che da una parte amministra se stessa nella crisi, attingendo dal suo grande modello di welfare ambrosiano e con politiche ispirate all’equità e giustizia sociale. E qui Pisapia sta facendo molto bene. Dall’altra la città che sa proiettarsi fuori, nel territorio vasto che la circonda soddisfacendo e amplificando domande e risposte di chi chiede una metropoli in rete col mondo, compatibile con l’ambiente, agganciata all’Europa. Expo è l’occasione per sviluppare questa riflessione critica sullo sviluppo del pianeta nella crisi globale. Milano, infondo, ne è pienamente coinvolta”. In sostanza la sfida da vincere la Milano di Giuliano Pisapia l’ha ancora tutta davanti a sé. E non è la sola.

Un altro fronte di critica riguarda la cultura, che tanta parte ha avuto nella vittoria di Pisapia. Daniele Biacchessi, scrittore, giornalista, autore di teatro civico, è stata una delle figure chiave di quelle “Officine della Cultura” che di fatto hanno scritto il programma elettorale, proponendo un risveglio della città dopo gli anni di cancellazione della sua identità culturale, della sua memoria, dei luoghi e dei progetti che l’avevano resa storicamente capitale dell’arte, dei mestieri, della cretività. “Quell’esperienza straordinaria – racconta oggi Bianchessi – è stata fondamentale per riportare alla politica centinaia di artistiti e intellettuali, forse la vera forza propulsiva della vittoria del 30 maggio 2011. Ma il progetto è rimasto in gran parte sulla carta. La giunta si è impegnata a modificare la toponomastica cittadina riappropriando Milano dei suoi simboli. Ma l’idea era più ambiziosa, di risvegliare Milano dal torpore provinciale che l’aveva avvolta peché tornasse ad attrarre i talenti da impegnare sulla città che, per molti, era diventata dormitorio e non il laboratorio culturale degli anni migliori”.

L’INVOLUZIONE ARANCIONE, DAL SOGNO ALLA REALPOLITIK
Alle critiche, da tempo, Palazzo Marino contrappone un dato di realismo, la realpolitik imposta dalla coperta corta del bilancio, un semaforo che segna rosso per 240 milioni e si è imposto sempre più come il cardine attorno al quale ruota l’azione politico-amministrativa della giunta. Il primo anno il vento del cambiamento era stato risucchiato dal buco di bilancio della Moratti. Lo scippo dell’Imu, il patto di stabilità interno e i tagli alla spesa hanno sequestrato l’orizzonte del secondo, costringendo Pisapia a giocare in difesa, a rivedere le priorità. La scelta del sindaco è stata quella di stabilire come “irrinunciabile” non più o non tanto la realizzazione del programma originario quanto la garanzia di operare tagli e risparmi “socialmente equi e sostenibili”. Non sempre questa spiegazione viene accolta con favore. Il brusco risveglio dal sogno visionario alla necessità contabile lascia segni profondi dentro lo stesso Comune: sul piede di guerra dipendenti comunali, vigili urbani, addetti Amsa, maestranze della Scala e lavoratori di Sea Handling, la società di smistamento bagagli che rischia il fallimento. Appena fuori dal palazzo i commercianti si dicono penalizzati da ogni provvedimento, dall’Area C alle Ztl sui Navigli. Sulla dittatura del bilancio non mancano giudizi critici.

Come quello di Basilio Rizzo, presidente del Consiglio comunale e riferimento politico della sinistra di lungo corso a Palazzo Marino. “Certo le questioni dei conti hanno condizionato le scelte, ma quelle fatte si sono limitate alla buona amministrazione dell’esistente, non al cambiamento. L’aspettativa del nostro elettorato era diversa. Si pensava che affidando le chiavi della macchina comunale sarebbe cambiato tutto. Ma così non è stato. Sia nella dirigenza e sia nella programmazione di appuntamenti strategici come Expo. Anche lì si è proseguito sulla strada tracciata di catalizzare enormi risorse ed energie, senza pensare ai reali ritorni per la città in termini di benessere e qualità di vita”. L’obiezione inascoltata a sinistra è sempre la stessa. “Era meglio fermare il cemento, invertire aspettative commerciali e appetiti di business per una versione sobria e autentica, partendo da un tema che non si presta alla grendeur come la nutrizione del pianeta. Più fuori salone che salone. Ma gli interessi che gravitano intorno all’evento sono più forti di ogni obiezione giunta finora”.

Altro incaglio sulla strada di Milano è il rapporto tra la giunta arancione e il Partito democratico. Dal giorno successivo all’impresa, il Pd si è come ritirato nei ranghi romani, lasciando sguarnito il fortino della speranza appena conquistato. Spiega Augusto Bianchi, commediografo, scrittore e animatore di un thinktank selezionato molto frequentato a sinistra: “Il Pd a Milano e in Lombardia non c’è da tempo, da quando è esploso il caso Penati che era l’uomo cardine del partito locale e braccio destro di Bersani. Da allora il Pd ha dato per persa l’area milanese. Il meglio che ha prodotto è uno suo dissidente critico di nome Giuseppe Civati, il resto è fatto di personalità politiche del tutto piatte e di una modestia imbarazzante sul fronte dell’impegno e delle battaglie”. Insomma il Pd ha lasciato Milano. Un scelta più volte miope, perché la Milano espugnata due anni fa era improvvisamente assurta a laboratorio politico per la liberazione dal berlusconismo, l’antidoto testato con successo nel luogo in cui la patologia è nata. A pagare dazio sarà infatti il giovane Umberto Ambrosoli – avvocato come Pisapia, civico come lui – che ha perso le elezioni riconsegnando Regione Lombardia a un centro destra decimato dagli scandali. I comizi del candidato (arancioni i gadget, il programma, i manifesti e il claim della campagna “porteremo la rivoluzione arancione in Regione”) andavano deserti appena usciti dal perimetro metropolitano, segno che la rivoluzione non ha fatto grandi passi avanti.

La distrazione del Pd si riflette poi nelle dinamiche interne alla giunta che nei primi due anni è stata percorsa più volte da impulso dissociativo tra critiche, smottamenti, fughe ed espulsioni. La vicenda dell’assessore Stefano Boeri, licenziato per le posizioni di dissenso dopo aver portato al Pd 13mila voti, è stata una deflagrazione. “Infondo era l’unica figura con un profilo intellettuale e culturale superiore alla media degli esponenti locali del partito”, dice Bianchi. E le tensioni non sono finite. Un incauto (o coraggioso?) assessore al commercio, Franco D’Alfonso, recentemente ha lasciato gli ormeggi per avventurarsi nel mare delle recriminazioni e alla fine ha sparato ad alzo zero: “abbiamo fallito (…) tra noi c’è gente incompetente (…). La macchina comunale si è rivelata un imbarazzante trabiccolo e in due anni siamo riusciti a cambiare poco o nulla (…) non abbiamo sviluppato il modello partecipativo di cui tanto si parlava”. Ma per un assessore che fa mea culpa, c’è un sindaco che si auto assolve. Pisapia sa come stanno andando le cose e certo non gli sta bene. Quanto, lo rivela la lenzuolata di precisazioni inviata al supremo giudice di via Solferino dallo stesso sindaco: settemila battute di replica, punto per punto. Che all’occhio attento rivelano il dilemma del caso Milano, città sospesa tra passato e futuro. A metà del discorso, dopo rivendicazioni legittime del buon operato, i verbi cambiano tempo: “Milano non sarà più una città soffocata dal traffico e dallo smog”, “il teleriscaldamento e le energie rinnovabili (..) l’incremento del car e bike sharing (…) il wi-fi ci daranno una città migliore”. E ancora: “Milano sarà più vivibile e più gioiosa, una città dalla quale riparte l’economia e l’occupazione”. Verbi declinati al futuro per progetti scritti due anni e mezzo fa nel programma di coalizione. Sottoporlo oggi a verifica, quando ne tre anni alla fine del mandato, sarebbe scorretto. Ma tradizione milanese vuole che le cose importanti si facciano subito. E la rivoluzione non arriva certo all’ultimo, non da sola. 

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