Con un ciao, e forse non sarebbe necessario neanche chiamarsi Dario Fo, puoi recitare la più bella poesia d’amore. Ci può finire di tutto dentro a un semplice saluto, soprattutto se non hai paura di urlare. Anche se la voce fatica a uscire dalle corde vocali, perché il pianto e la commozione incidono pure su chi ha una gamma timbrica da far paura.

Forse Dario ha raggiunto il suo momento più alto, nella dignità con cui ha tenuto Franca tra le braccia fino all’ultimo respiro. Ma da un gigante, perché Dario Fo è un gigante, puoi aspettarti di tutto. La vita gli ha giocato un brutto scherzo, gli ha rimpiattato la sua metà. Non c’è mai stato Dario Fo senza Franca Rame. Difficile riuscire a separare i due nomi, perché più che in sintonia hanno vissuto in simbiosi. Perché il teatro gioca questi scherzi, il mondo dello spettacolo e dell’arte in genere lo fa. Provate a dire Paul Simon e qualche strano filo della memoria vi riporterà a Garfunkel. Cercate di separare Totò da Peppino, Franco da Ciccio. Provateci voi a non guardare gli occhi di Cochi Ponzoni senza rivedere in quello sguardo la malinconia di Renato Pozzetto. Sono storie d’amore anche queste, spesso tristi e travolte dall’inquietudine umana, sospese e poi riprese. C’è il cuore, perché se non ci fosse, tu che stai sotto al palcoscenico, te ne accorgeresti. E non sarebbe la stessa storia.

Dario Fo è sempre stato Franca Rame. Non credo di averli mai visti in veste separata, era difficile anche sentirli al telefono senza che uno chiamasse l’altro per chissà quale motivo. Mai per abitudine, perché se esiste un livello, Dario e Franca lo oltrepassavano. Giocavano d’amore e di genio. Come quella volta che Franca andò in una trasmissione della Carrà a dire che si era stufata di dover rispondere alle letterine delle sue fidanzatine e ammiratrici. “Tutte che vedono mari in burrasca, tutte uguali”, disse. Si lasciarono, ma non credo per davvero, un anno e poco più. Dopo tornarono a vivere insieme nella loro casa di Porta Romana, a Milano, dove anche le pareti puzzavano d’arte.

L’aneddotica è bella, ma non è questo il contesto. Mi piace raccontare di quella volta che arrestarono Dario, a Sassari, e Franca recitò per tre giorni davanti a duemila ragazzi in un corteo che si sarebbe dovuto sciogliere e non si sciolse mai, perché aspettarono tutti che Dario venisse rilasciato. O di come Franca raccontava Enzo Jannacci e la sua adorabile follia: “Un giorno la moglie lo segue. Non c’erano apparecchi portatili, satellitari. Enzo va alla cabina del telefono e chiama una sua amica. La moglie resta fuori e ascolta tutto, con le braccia incrociate. Quando Jannacci si gira e la vede è già passato un quarto d’ora. Sapete come si difese: “Oue, mi ha chiamato lei.” Capito il folle?”.

Di queste storie e di quella Milano, se qualcuno trovasse il coraggio riempirebbe le librerie. Ma ci sono cose che non possono varcare i confini di un’osteria. E’ lì dentro che devi sentirle raccontare, non in una stupida colonna bianca.

E’ per questo che basta un ciao. Urlato, sospirato, macchiato di quella nostalgia che solo un bambino, o un cretino, possono trasmetterti. Perché loro quella cosa che si chiama amore, e che colora le pareti, ce l’hanno a prescindere. Noi che non siamo Dario Fo a volte dobbiamo accontentarci di sentirla da altri.

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