Mentre la politica nostrana pare avvilupparsi sempre più su sé stessa, arriva, dalla Svizzera la conferma che il Paese perde sempre più quota sul fronte della competitività. A certificarlo è l’Institute for Management Development (Imd) di Losanna, che con cadenza annuale, da 25 anni, stila una classifica internazionale sulla competitività in 60 Paesi. Gli indicatori contemplati dalla prestigiosa business school (al primo posto nelle classifiche mondiali del Financial Times 2013 ) sono addirittura 326 e abbracciano quattro macro-aree: la dotazione infrastrutturale, le performance economiche, l’efficienza delle Istituzioni e del mondo degli affari.

Ebbene l’Italia ha perso 3 posizioni rispetto allo scorso anno, piazzandosi al 44esimo posto. Nelle retrovie, dunque, lontanissima dai diretti competitor come Germania (9°), Gran Bretagna (18°), Francia (28°). Gli Stati Uniti hanno invece riconquistato il 1° posto, grazie ad un rimbalzo del settore finanziario, all’abbondanza di innovazione tecnologica e di aziende di successo. Al secondo posto la Svizzera e al terzo Hong Kong che era primo lo scorso anno. Cina e Giappone sono in crescita, rispettivamente al 21° e al 24° posto.

Il Professor Stephane Garelli, direttore della IMD World Competitiveness Center, ha così commentato il risultato del nostro Paese: “Il programma di austerità – anche se necessario per ridurre la spesa pubblica e quindi la pressione fiscale – gela i consumi e aumenta la disoccupazione a livelli inquietanti. L’Italia, per mettere a punto il suo programma di riduzione dei costi, ha bisogno di semplificare il contesto normativo e di ridurre i costi amministrativi. La competitività non può migliorare senza l’espansione dell’economia, e ora l’Italia deve concentrarsi su un piano di crescita volto a rilanciare la fiducia sia delle imprese che dei consumatori! Anche se – prosegue il professor Garelli – la zona euro resta in fase di stallo, la rimonta robusta degli Stati Uniti in cima alla classifica della competitività, e le notizie migliori dal Giappone, hanno rianimato il dibattito sull’austerità: le riforme strutturali sono inevitabili, ma la crescita rimane un prerequisito per la competitività. I Paesi hanno bisogno di preservare la coesione sociale per assicurare la prosperità”.

In Europa, le nazioni più competitive restano Svizzera (2), Svezia (4) e Germania (9), il cui successo, come noto, si basa su produzione orientata alle esportazioni, maggiore diversificazione produttiva rispetto a quella del nostro Paese, in particolare su segmenti meno aggredibili dalla concorrenza cinese, piccole e medie imprese (PMI) più capitalizzate di quelle italiane e disciplina fiscale meno oppressiva e farraginosa della nostra. Come l’anno scorso, il resto d’Europa è fortemente vincolato da programmi di austerità che stanno ritardando il recupero e mettendo in discussione la tempestività delle misure proposte. L’Europa in effetti rappresenta più della metà dei “perdenti” dalla classifica del 1997.

“Il Regno Unito e la Francia, in particolare, – sottolinea in una nota stampa l’Imd – stanno perdendo la loro posizione dominante e influenza competitiva, mentre Paesi Bassi, Lussemburgo e Finlandia devono adeguare i propri modelli di competitività ad un ambiente che cambia”. Accennando infine al merito dei risultati conseguiti dall’Italia nelle macro-aree prese in considerazione dalla business school svizzera, emerge come i peggiori indicatori riguardino l’efficienza delle Istituzioni (55°), penalizzata in particolare dal pessimo stato delle finanze pubbliche, dalla politica fiscale, dalla legislazione societaria e dal quadro istituzionale.

Nella classifica finale, pesano poi le cattive “prestazioni” ottenute nell’area relativa alle performance economiche e all’efficienza del mondo degli affari (produttività, mercato del lavoro, credito e finanza), dove siamo rispettivamente al 50esimo ed al 46esimo posto. Insomma la strada per la risalita è lunga, complicata ed abbisognerebbe di svolte radicali su tanti fronti, aperti da troppi anni. Riforme che probabilmente sarà difficile vedere mettere in campo dal governo di larghe intese presieduto da Enrico Letta.

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