Ci sono tre date che segnano per sempre il calcio inglese. L’undici maggio 1985 muoiono 56 persone durante l’incontro tra Bradford City e Lincoln City. Due settimane dopo, il 25 maggio, è la sera della tragica finale dell’Heysel tra Liverpool e Juventus. Muoiono 39 persone, 32 italiani. Il 15 aprile 1989, nella calca dello stadio Hillsbrough di Sheffield, muoiono 96 persone, la più grossa tragedia nella storia dello sport d’oltremanica. 

Glenn, queste tre date, le ha ancora impresse nella memoria. Cinquantanove anni, Londoner e tifoso del Chelsea da sempre. Ha vissuto in prima persona gli anni caldi in cui “comandavano” gli hooligans. “Dal punto di vista della sicurezza, il calcio da noi è cambiato molto,” dice mentre fuma l’ennesima sigaretta della giornata, fuori da un bar su Euston Road. “Negli anni ‘70 e ‘80 si poteva camminare indisturbati da un settore all’altro dello stadio. Ricordo che a Stamford Bridge i tifosi del West Ham si dividevano tra gli stand e tiravano di tutto ai tifosi di casa, che ovviamente non stavano a guardare. C’erano un sacco di cori offensivi e razzisti. Praticamente non c’erano regole”. Anche in trasferta gli hooligans avevano carta bianca. “A seconda di quale tifoseria si spostava per andare a seguire la propria squadra da una città all’altra, i treni venivano devastati, i finestrini distrutti. Vero e proprio vandalismo.”

“Adesso le cose sono diverse” – aggiunge Warren, 30 anni, anche lui un Blues, che si aggrega alla nostra conversazione, che adesso si è spostata dentro al bar, nella grigissima Londra di questi giorni. Grigia nel cielo e grigia nell’umore. “Ci sono telecamere ovunque e steward che controllano tutto, ma senza la cooperazione delle persone, le misure di sicurezza sarebbero vuote. Se qualcuno non si comporta in maniera civile, siamo noi tifosi ad andare dagli steward per far individuare chi trasgredisce le regole. Sono i tifosi i primi che fanno dello stadio il posto in cui vorrebbero stare.” “Ci ha guadagnato la nostra società”, concordano i miei amici Blues. “Non si sperperano più soldi per rimettere a posto i trasporti pubblici vandalizzati durante le trasferte o per pagare la polizia per controllare degli scalmanati, invece che starsene fuori ad occuparsi di problemi più seri”.

La civiltà degli inglesi durante le partite contrasta con alcuni elementi costitutivi propri del “nuovo” sistema. Non esistono fenomeni spiegabili solo con bianco o nero.

“Non vado molto allo stadio, specialmente per due motivi” – continua Glenn. “Il primo è il costo elevato dei biglietti. Non è più possibile recarsi allo stadio, comprare il ticket ed entrare.” Ci sono disponibilità di biglietti limitati ed il costo delle entrate è aumentato in maniera esponenziale. Entrambi sono chiaramente molto critici su questo punto: “La middle class è stata fatta praticamente fuori dagli stadi. Ci si può permettere un match ogni tanto. Spesso gli unici che seguono la squadra in maniera costante sono coloro che hanno il proprio box riservato allo stadio.”

Il secondo motivo è perché il calcio è cambiato troppo. Un sacco di soldi guadagnati dai calciatori che nella maggior parte dei casi nemmeno si interessano della squadra e dei suoi tifosi, è più business che sport. “Prima li avresti trovati al pub dietro allo stadio a farsi una pinta con i tifosi, oggi devi avere i soldi e gli agganci per entrare nei club che frequentano a Mayfair”.

L’autore: Lorenzo Bettoni, vive a Londra da due anni. Tra le altre cose scrive per il magazine “Made in Shoreditch” ed è commentatore di calcio e tennis.

Twitter: @lorebetto

 

 

Articolo Precedente

Nibali vince (e salva) il Giro d’Italia. Ora gli italiani lo vogliono al Tour

next
Articolo Successivo

Olanda, in tv documentario sul doping nella Juve anni ’90 (con troppe omissioni)

next