Dicono di voler difendere la libertà di insegnamento e il diritto allo studio. In verità la battaglia contro l’inglese al Politecnico di Milano ha molto più l’aria di essere una difesa corporativa portata avanti da un manipolo di professori in difesa di rendite di posizione e interessati piuttosto a difendere il loro piccolo feudo universitario. E ieri il Tar ha messo il sigillo su questa battaglia di retroguardia, accogliendo il ricorso di 234 professori (su 1386) del Politecnico di Milano contro la decisione del rettore di tenere, a partire dal 2014, i corsi delle lauree specialistiche solo in inglese. Congratulazioni. Mettiamolo per iscritto, addirittura per legge, che l’Italia deve diventare una Cenerentola del mondo, un piccolo paese provinciale, rinchiuso nella difesa dei propri assurdi privilegi e vecchi schemi mentali. “Insegnare in inglese sarebbe un impoverimento della lingua” dicono i firmatari di un appello prima e poi del ricorso.

Il rettore Giovanni Azzone è forse un fanatico della lingua di Albione? Non credo, voleva semplicemente rendere la facoltà più moderna, dargli un respiro internazionale. Parliamo di lauree specialistiche, di ingegneri e architetti, che dovrebbero anzi pretendere di ricevere una educazione in inglese. Per essere competitivi in questo mondo globalizzato non basta sapere l’inglese posticcio del liceo. Era anche una decisione per cercare di attrarre studenti da tutto il mondo, dire a quella marea migrante di persone che usano l’inglese come lingua franca per comunicare, scambiare idee, lavorare; ehi ragazzi, ci siamo anche noi. Invece di andare in Inghilterra o in America o in Canada, venite a studiare a Milano. Gente abituata a parlare la propria lingua a casa, che sia cinese, turco, indiano, spagnolo o norvegese. Ma a studiare in inglese, perché i testi scientifici sono in inglese. Perché se vuoi pubblicare una ricerca su una rivista e farlo sapere al mondo, lo devi fare in inglese. E perché l’inglese è la lingua dei congressi internazionali, di internet, di twitter, di google, dell’informazione globale che corre sulla rete. Lo hanno capito perfino i francesi. Il paese dell’eccezione culturale, il paese campione dello sciovinismo linguistico, dove si ostinano ancora con il ridicolo “ordinateur” al posto del computer. Martedì la prima pagina del quotidiano gauchista Libération titolava a lettere cubitali “Teaching in English. LET’S DO IT”, con un articolo di fuoco contro i francesi “che si comportano come gli ultimi rappresentanti di un villaggio gallico sotto assedio”. Una entrata a pie’ pari nel dibattito sul discusso disegno di legge per introdurre l’insegnamento di alcune materie in inglese all’università che dovrebbe essere votato in questi giorni. In Francia sì, in Italia no. Unici ancora in Europa a doppiare i film in lingua invece di sottotitolarli. È anche questa una difesa della diversità linguistica?

Siamo al paradosso che sono proprio gli accademici a vedere nell’inglese una minaccia, quando dovrebbero essere loro a promuoverlo. Una difesa di casta mascherata da nobile battaglia in difesa della lingua di Dante. “Una vittoria della ragione e della cultura” ha dichiarato Agostina Cubiddu, docente di Diritto amministrativo al Politecnico nonché avvocato dei ricorrenti. Un conto è conoscere una lingua straniera, un altro tenere lezioni ed esami, la tesi dei ricorrenti. Si capisce fosse in discussione l’abolizione dell’italiano dalle scuole elementari. O che si parlasse di insegnare letteratura italiana in inglese. Ma qui non c’è nessuna minaccia alla lingua madre: l’elettronica e l’ingegneria hanno bisogno dei sottotitoli? Si obietta che gli studenti che non sanno l’inglese sarebbero discriminati. Sono lauree specialistiche. Lo imparino, finché saranno in tempo. Perché sennò sarà la vita a discriminarli. E il mercato del lavoro. E la fame dei cinesi, che l’inglese lo imparano eccome. Ma allora sarà troppo tardi e non ci sarà nessun Tar in grado di trovargli un lavoro.

@caterinasoffici

Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2013

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