Il perfezionismo ha a che fare con la paura. La paura di sbagliare, di far brutta figura, di “perdere la faccia” e la fiducia degli altri. Con questa strategia cerchiamo allora di controllare l’esito di quel che facciamo, e ci aiuta ad avere buoni risultati.

Ma il perfezionismo ci abitua ad un atteggiamento di fondo fatto di aspettative forti, fino, all’estremo, al coltivare l’ossessione di un mondo “perfetto” – se “io” infatti mi do tanto da fare, finirò facilmente con l’aspettarmi che anche gli altri lo facciano. Giudichiamo le azioni degli altri vedendone le conseguenze – e non sentendo “in diretta” le (loro) ragioni e le (loro) buone intenzioni – è quindi facile sentirci frustrati e arrabbiati dall’imperfezione del mondo, inteso come il risultato complesso delle azioni di tutti.

Le “buone intenzioni” infatti le possiamo sentire solo se sono le nostre, quelle appunto che sentiamo in diretta, dentro di noi. E questa banale circostanza impedisce spesso l’equanimità e la calma, nel parlare fra di noi.

Sembra che in fondo noi si sia convinti che le cose debbano funzionare al meglio e che la società ci debba rendere felici, per cui coltiviamo un atteggiamento che assomiglia alla pretesa – di perfezione – sia da parte di noi stessi che dalla realtà in generale. Per cui, senza accorgercene, seminiamo in noi stessi esattamente il contrario di quella serenità che cerchiamo di ottenere: la frustrazione.

Pretendere che le cose siano come ci auguriamo che siano implica spostare la nostra attenzione verso quel che (ancora?) non lo è, trascurando quel che già “funziona” e di cui, se solo ce ne rendessimo conto, potremmo rallegrarci. L’atteggiamento mentale della pretesa si può definire quindi come il contrario di quello della gratitudine, che ci permette di sentire gioia per quel che esiste.

Nella storica dichiarazione di indipendenza americana (1776) Jefferson formulava il diritto alla ricerca della felicità (pursuit of happiness), non alla felicità. Sembra forse una sottigliezza lessicale, ma cogliere la differenza è fondamentale: è nella ricerca della felicità, nella libertà di darci da fare per realizzarci, che sentiamo soddisfazione. Nel processo, non nella fine del processo, nel camminare, non nel raggiungimento della meta.

Ma come ognuno di noi avrà notato, camminando la linea dell’orizzonte si sposta con noi. Fortunatamente per noi esseri umani, quindi, la meta non la si raggiunge mai, se la meta è la perfezione e la felicità intesa come uno stato duraturo. La perfezione, si dice, non è di questo mondo, appunto. Facciamo di tutto dunque per migliorare la nostra situazione, pretendendo di più e il meglio da noi stessi e dalla nostra vita, e la nostra caratteristica insoddisfazione è in fondo la fonte della nostra intrinseca motivazione.

Nella vasta produzione di libri che riflettono intorno al tema spinoso del “come poter vivere meglio”, Vallardi ha appena pubblicato La storia del piccolo pinguinoin cui l’autore, Danis Doucet, psicologo canadese, sostiene che siamo afflitti da un eccessivo sforzo di adattamento.

Il messaggio è che possiamo smettere immediatamente di credere di dover insistere per fare di più e di meglio, per adattarci alle richieste della società. Quel che ci serve è fermarci a riflettere, suggerisce la favola del pinguino, almeno se facciamo (ancora?) parte del gran numero di persone perennemente insoddisfatte. Cito: “più agiamo secondo una mentalità individualistica, più facciamo gli interessi economici di chi fabbrica beni e servizi. Se tre vicini condividessero la stessa falciatrice, le vendite calerebbero di due terzi”. Uno stile di vita solidale, calmo e riflessivo diventa un’implicita critica al sistema economico consumista.  

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