Non avrebbero arrestato Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995, ma anzi ne assecondarono la latitanza, per garantire il patto siglato tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra nel 1993. Per questo motivo la procura di Palermo ha chiesto di condannare il generale Mario Mori a 9 anni di reclusione e il colonnello Mauro Obinu a sei anni e mezzo, più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Dopo cinque anni di udienze, una lista interminabile di testimoni, un quantitativo esponenziale di prove documentali, è arrivato al giro di boa il processo per la mancata cattura di Provenzano, che sarebbe stato individuato in un casolare nei pressi di Mezzojuso il 31 ottobre del 1995, ma lasciato libero da un input di Mori ed Obinu: una volontà che per il sostituto procuratore Nino Di Matteo sarebbe stata esplicita e dettata da interessi superiori.

“Mori e Obinu, obbedendo a un indirizzo di politica criminale hanno ritenuto di trovare una sciagurata soluzione nell’assecondare le fazioni più moderate di Provenzano e di Cosa nostra, che avrebbe garantito l’abbandono di uno scontro violento” ha detto il pm concludendo la sua lunga requisitoria davanti alla corte presieduta dal giudice Mario Fontana. I due alti ufficiali del Ros sono accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. A trascinarli alla sbarra cinque anni fa furono le dichiarazioni del colonnello Michele Riccio, che tramite il confidente Luigi Ilardo aveva ricevuto la “soffiata” di un summit organizzato da Provenzano nelle campagne di Mezzojuso. Al militare fu però negato il via libera per effettuare il blitz ed arrestare il boss corleonese, che rimase latitante fino all’11 aprile del 2006. Poco tempo dopo il confidente Ilardo venne assassinato in un agguato rimasto ancora oggi misterioso, senza avere avuto il tempo di diventare a tutti gli effetti un collaboratore di giustizia. 

“Non c’erano le possibilità di intervenire in quanto il terreno era costantemente occupato da mucche, pastori e pecore” si è giustificato davanti ai giudici Obinu, mentre Mori ha più volte specificato di non essersi occupato del caso Ilardo. I due militari hanno denunciato Riccio, scagionato però dalla dal gip Maria Pino, che nella sua sentenza di assoluzione fa cenno a “plurime omissioni e inerzie del Ros dei carabinieri finalizzate a salvaguardare la sua latitanza”. Dopo le arringhe difensive degli avvocati toccherà invece alla quarta sezione del tribunale di Palermo decidere se i due militari favorirono o meno Cosa Nostra. “Non importa – ha spiegato Di Matteo nella sua requisitoria – la finalità di Mori e Obinu: non hanno aiutato Provenzano perché collusi o intimoriti da Cosa Nostra, ma per una scelta sciagurata di politica criminale, e cioè la prosecuzione della latitanza di Provenzano. Allo stesso modo il governo e il Dap assecondarono il dialogo agendo in questa ottica di trattativa”.

Il processo per la mancata cattura di Provenzano si incrocia da tempo con l’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia, che lunedì prossimo approderà davanti ai giudici della corte d’assise di Palermo. Tra gli imputati anche lo stesso Mori, accusato di violenza ad un corpo politico dello Stato. Secondo la procura di Palermo la “protezione” del ragioniere di Cosa sarebbe infatti uno degli oggetti principali del patto scellerato che tra il 1992 e il 1994 portò pezzi delle istituzioni a sedersi allo stesso tavolo dei boss mafiosi. Ed è per questo, quindi, che nella lettura della procura, Mori e Obinu non arrestarono volutamente Provenzano a Mezzojuso. Una fattispecie di reato che all’inizio del processo appariva isolata che però è diventata un pezzo del complicato puzzle della trattativa, in seguito alle indagini della procura sul patto Stato-mafia.

La protezione di Binnu ‘u Tratturi, tra l’altro, si sarebbe sviluppata anche negli anni successivi, dato che nelle scorse settimane altri due carabinieri hanno denunciato atti di ostruzionismo, tra il 2000 e il 2004, mentre erano sulle tracce del boss corleonese. Provenzano sarebbe stato il garante del patto Stato-mafia, e in quanto tale non doveva essere arrestato. Una protezione statale al Capo di cosa Nostra che sarebbe stata dettata da un’indicibile ragion di Stato.

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