Varcare la soglia del carcere di Parma, dove Bernardo Provenzano è recluso in regime di carcere duro, è come tuffarsi nel lago di Loch Ness e scoprire che il vecchio e sanguinario mostro non è più in grado di reggersi in piedi. Le immagini, agli atti del procedimento sulla trattativa Stato mafia, diffuse in anteprima da “Servizio Pubblico” (che giovedì 23 maggio le trasmetterà in versione integrale su La7) riprendono il boss a colloquio con i familiari in due date cardine dell’inchiesta che la Procura di Palermo sta portando avanti sulla reclusione di Provenzano. L’indagine passa al setaccio gli ultimi mesi dell’ex super latitante che l’estate scorsa sarebbe stato prossimo a collaborare con la giustizia.

“Papà, siamo stati preoccupati, cos’hai fatto?”, chiede il primogenito Angelo Provenzano al padre il 19 maggio del 2012. È la prima volta che il boss incontra i familiari dopo la notizia di un suo presunto tentato suicidio. “Dio mio, cos’ho fatto?”, risponde visibilmente sorpreso da quanto gli dice il figlio. Questo il primo buco nero intorno al quale indagano i magistrati. Quel gesto estremo, in cella la notte del 9 maggio dello scorso anno e immediatamente bollato dall’amministrazione penitenziaria come una farsa, non ha mai convinto nessuno, a partire dalla Procura. Nel secondo video che verrà trasmesso stasera, Provenzano incontra la compagna, Saveria Benedetta Palazzolo e il figlio minore, Francesco Paolo il 15 dicembre 2012. Due giorni dopo viene trovato in cella, in coma con un ematoma in testa. Livido che mostra ai parenti durante il colloquio. Fatica a muoversi, a comunicare. “Pigghiai lignate”, dice al figlio che lo incalza per capire come sia successo, poi però conclude: “Sono caduto”.

La prossima settimana inizia il processo sulla Trattativa e la posizione del superboss è stata stralciata, in quanto ritenuto incapace d’intendere e di volere. Dopo la rimozione dell’ematoma e sopravvissuto al coma, Provenzano il 7 marzo è tornato in cella in regime di 41bis. Per capire in che condizioni basta leggere l’istanza del Tribunale di Bologna che rigetta la richiesta, avanzata dai legali del boss, di trasferirlo in una struttura sanitaria. Al rientro in istituto è stato “approntato un piano di assistenza per garantire le cure fisiatriche, l’assistenza per atti quotidiani compresa l’alimentazione, le visite periodiche e le mobilizzazioni per evitare le piaghe da decubito. Infine la più recente documentazione dà conto della difficoltà a sostenere un colloquio”. Praticamente un vegetale, al 41bis con “badante”. Un ossimoro, se non proprio un’anomalia, rispetto alle rigide prescrizioni del carcere duro. Eppure, è proprio questa speciale assistenza che convince la Suprema Corte a non ritenere che “il soggetto possa essere trattato meglio in ambiente libero”. Una conclusione alla quale è arrivata anche l’ex Ministro della Giustizia Paola Severino che non ha ritenuto opportuno revocare il 41bis. Resta il dubbio sulla possibile collaborazione di Provenzano con la giustizia. Da cosa sono stati causati i numerosi ricoveri e le cadute di Binnu annotate nel diario clinico? Possibile che, come dice il boss, sia stato picchiato? Da chi? “Ma quali legnate – sostiene il sindacato della polizia penitenziaria – Provenzano è controllato 24 ore su 24 da poliziotti e telecamere”. Se così fosse sarebbe possibile documentare la notte del tentato suicidio e le cadute. Ma così non è. A metà febbraio il Dap, sollecitato dalla Procura, aveva ufficialmente negato la presenza delle telecamere nella cella del vecchio corleonese. Dove restano lui e i suoi segreti.

di Dina Lauricella

da Il Fatto Quotidiano del 23 maggio 2013

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