Per quanto ci siano ancora “esperti” che in libri e articoli si affannano a scrivere che il biologico possa essere comparabile al “convenzionale” (termine improprio per indicare l’uso industriale di certi agrofarmaci comunemente detti pesticidi), perlomeno sotto il mero e riduzionistico punto di vista nutrizionale, nemmeno questo è più vero. E da tempo. Lo avevamo già scritto, opponendoci alle due rassegne sistematiche che per anni sono state citate nel mondo come esempio contrario, attestando però piuttosto che è la statistica a orientare le opinioni.

Insomma il biologico fa vivere di più e meglio. E ora, dopo che per anni aveva affermato il contrario, se ne è accorto anche l’Inran, l’ex Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, che è stato malamente incorporato nel Cra (Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura).

Sicché il Cra (sezione ex Inran), coordinando il progetto Bioqualia finanziato dal Mipaaf,  si è accorto che qualità nutrizionale ed organolettica delle produzioni biologiche è migliore. E ha pure ribaltato la visione delle rassegne sistematiche. Vediamo:

“Dall’indagine bibliografica sulle ricerche pubblicate su riviste scientifiche internazionali dal 2005 al 2011 e aventi per oggetto il confronto qualitativo tra prodotti biologici e convenzionali è emerso che:

a) la frutta biologica tende ad avere una maggior presenza di vitamina C e – nel caso dei frutti a bacca – un più elevato contenuto di composti fenolici rispetto alla convenzionale

 b) gli ortaggi biologici tendono a mostrare una concentrazione superiore di carotenoidi

c) per quanto riguarda latte e derivati, i prodotti ottenuti da animali allevati con il sistema biologico sembrano più ricchi in acidi grassi polinsaturi e acido linoleico coniugato, sostanze dalla rilevante azione preventiva verso numerose patologie (ad es. quelle cardiovascolari)”

Ma non è finita qui:

“Sempre nell’ambito del progetto, il Centro di Sperimentazione Agraria e Forestale Laimburg di Ora, in provincia di Bolzano, ha svolto uno studio sulle problematiche legate alla fertilizzazione nella produzione biologica di melo. Sono stati sperimentati differenti fertilizzanti presenti in commercio ed ammessi in agricoltura biologica, con l’intento di dare ai produttori locali indicazioni sulle quantità di fertilizzante da usare ed in quale periodo della stagione somministrarle. I frutti ottenuti sono stati poi analizzati presso l’ex Inran oggi Cra, sia con metodi chimici che sensoriali, per verificare se i tipi di fertilizzanti utilizzati e le diverse modalità di impiego avessero inciso sulle caratteristiche organolettiche delle mele. L’analisi dei dati con particolari metodologie statistiche ha permesso di evidenziare differenze nella presenza di composti dell’aroma, nella consistenza, nella dolcezza e nel contenuto di composti fenolici totali in relazione alla quantità di azoto somministrato e alle modalità di somministrazione.

Infine, l’Università di Palermo ha valutato le prestazioni energetico-ambientali della filiera produttiva delle mele biologiche coltivate in Trentino Alto Adige: ebbene, questa implica impatti energetici e ambientali ridotti del 5% rispetto alla filiera convenzionale. In particolare, la ricerca ha mostrato che è la distribuzione la fase della filiera in cui si generano i consumi di energia e le emissioni di gas serra maggiori (60-70%) e che quindi la realizzazione della filiera corta (prodotti a “km zero”) abbatterebbe di oltre il 96% i consumi energetici e le emissioni di gas serra.”

Certo il biologico non è una panacea ma “implica minor inquinamento, minor costo energetico e sovrasfruttamento delle risorse naturali. Insomma maggiore sostenibilità ambientale e perfino economica, dato che non prevede costi per la rimozione dalle acque potabili delle sostanze chimiche provenienti dagli allevamenti intensivi”. Peraltro il bio prevede la rotazione delle colture e la piantumazione di siepi, la salvaguardia di boschetti e stagni per dare ospitalità alla fauna utile che naturalmente contrasta quella nociva. E ha cura del benessere degli animali, la cui alimentazione si basa sul pascolo e su foraggi biologici senza l’uso preventivo di farmaci e antibiotici.

Nonostante ciò, come scrive martedì The Wall Street Journal, le vendite degli insetticidi (e agrofarmaci in genere) in USA stanno aumentando di nuovo, dopo anni di declino.  Con conseguenze nefaste anche sulla salute degli agricoltori. E questo perché gli agricoltori si sarebbero affidati per anni agli OGM, alle varietà transgeniche resistenti agli agrofarmaci, specie al glifosato (celebre quello della multinazionale Monsanto), senza dunque variare gli agrofarmaci stessi (o le colture) come in passato, aggrappati ad uno studio della Monsanto del 2004.

Ebbene, la conseguenza è stata che oggi ci sono circa 18 varietà resistenti al glifosato che hanno assunto un peso considerevole nelle colture in Brasile, Argentina, Australia e Paraguay. Tanto che la Monsanto sta raccomandando di tornare a usare non solo il glifosato ma un mix di diversi agrofarmaci.

Lo stesso accade con le varietà transgeniche resistenti ad alcuni insetti, in pratica capaci di produrre da sé effetti insetticidi: a cui certi insetti sono nel frattempo diventati resistenti (come riportato in un paio di studi universitari nel 2011), e dunque diversi agricoltori sono tornati a usare anche spray insetticidi.

Il paradosso è che, riporta Nature in un recente dossier sugli OGM, proprio l’adozione delle piante transgeniche, dopo un’iniziale diminuzione dell’uso degli agrofarmaci sbandierata in ogni dove, potrebbe portare, come risulta in uno studio della Pennsylvania State University nel 2012, a un aumento rilevante dell’uso degli agrofarmaci: ad esempio gli erbicidi passerebbero da una media di 1,5 kg per ettaro del 2013 a una media di 3,5 kg nel 2025.

In Italia, spinto dalle firme raccolte dall’Associazione Diritti Genetici su change.org, il Senato ha appena approvato la norma europea di salvaguardia: che permette allo Stato di vietare la coltivazione di OGM nel caso di rischi per la salute o l’ambiente. Mentre la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha appena dato ragione al signor Fidenato, che aveva violato tale norma di salvaguardia, piantando semi di piante transgeniche della Monsanto. Staremo a vedere…

Staremo a vedere…

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