La commemorazione delle stragi di Capaci (23 maggio) e di via D’Amelio (19 luglio) è stata preceduta quest’anno da una raffica di sequestri e confische di patrimoni riciclati, frutto di sofisticate indagini giunte a conclusione, che testimonia un netto miglioramento della capacità repressiva di quello che è pur sempre il fine della criminalità organizzata: l’accumulazione illecita di ricchezza. A questo dato positivo e incoraggiante perché il riciclaggio rappresenta un’insidia pericolosa per il libero svolgimento della competizione economica, fanno riscontro altri molto meno incoraggianti: la gestione dei patrimoni sequestrati e confiscati, la permeabilità del tessuto economico siciliano alla cultura criminale e (posso dirlo?) la retorica dell’antimafia.

Dalla riforma del 2010 i patrimoni sequestrati e confiscati fanno capo ad un’Agenzia unica: l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Già il nome sa di tanta burocrazia e poco pragmatismo: uno Stato davvero temibile, chiamerebbe in un modo da incutere terrore alla sola pronuncia (tipo Spectre, Gestapo…) l’organizzazione deputata a colpire mortalmente l’anti-Stato. E invece tali beni (immobili, terreni, aziende, beni mobili registrati, attività finanziarie) vengono sistematicamente vandalizzati sia fisicamente che giuridicamente attraverso debiti e ipoteche creati ad arte che scoraggino il loro riutilizzo economico e dimostrino che “nulla è cambiato” al di là delle misure di prevenzione. Quando una civile abitazione viene assegnata -ad esempio- temporaneamente ad una famiglia indigente, immancabilmente i nuovi inquilini vengono avvicinati dagli ex proprietari che confermano il benestare al possesso (“meglio in mano a voi che agli sbirri”) e avvertono che, in caso di vendita, provvederanno loro a fornire un’adeguata sistemazione perché il bene deve tornare ai proprietari originari. Se così stanno le cose, tale tipologia di beni andrebbe offerto prioritariamente alle famiglie delle forze dell’ordine che magari vivono in case in affitto, con locazione a titolo gratuito in cambio della testimonianza della presenza dello Stato ovvero con possibilità di riscattare la proprietà del bene se bisognoso di opere di manutenzione straordinaria. Così fa lo Stato di Israele nei territori occupati con l’invio di coloni: non giudico il merito, ma apprezzo senz’altro il piglio dell’approccio al problema. I simboli contano e il messaggio che lo Stato fa passare nella fase post repressione non è buono. Per le aziende sequestrate e confiscate avviene qualcosa di simile: in mano alla mafia prosperavano mentre con il nuovo “azionista” perdono. E’ vero che è più facile incrementare i fatturati “con una parola gentile e una pistola che con una parola gentile e basta” o non rispettando norme in tema di lavoro, sanitarie e altro, ma con tutti i dirigenti di impresa a spasso per la crisi non dovrebbe essere difficile individuare manager che si intestino progetti imprenditoriali con la sponsorizzazione dello Stato. Lo stesso si potrebbe fare con beni o aziende affidati in comodato gratuito a giovani imprenditori meritevoli. L’Agenzia dovrebbe quindi essere gestita da professionalità più vicine a quelle dei gestori di fondi di investimento o a quelli di private equity che non da burocrati appagati più dal rispetto delle procedure che dal perseguimento di risultati socialmente utili.

L’ondata di sequestri e confische di attività riciclate mette in luce un dato imbarazzante per l’economia siciliana: il peso tutt’altro che marginale e nemmeno minoritario del fenomeno. Per chi ha un minimo di dimestichezza con i conti aziendali, sono tante le situazioni inspiegabili per cui si sa o si sospetta, in mancanza di prove. A differenza dello Stato che spesso mostra di sé solo il lato più ottuso e odioso della malaburocrazia, il crimine organizzato offre servizi apprezzabili: attraverso il racket è vero che chiede il pagamento di un tributo, ma offre in cambio sicurezza e tiene a bada la concorrenza, a semplice richiesta, con tempi veloci e il minimo di formalità. Vi è un perfetto parallelismo tra la cultura antimeritocratica e anticompetitiva della mafia e la difesa di certo sicilianismo becero -cavalcato da politici autonomisti- delle professionalità locali contro l’ingresso di competitori dall’esterno: l’importante è tenere basso il livello della concorrenza e non intaccare gli equilibri e le rendite di posizione. La diffusione del pizzo non si spiegherebbe senza un odioso opportunismo individualista. Tutto questo si chiama cultura parassitaria ed è la cultura propria di una associazione di assassini vigliacchi che per uccidere un prete inerme che verrà beatificato domenica prossima mandarono addirittura quattro persone.     

Per non rendere vano il sacrificio di tanti servitori dello Stato c’è una cosa che davvero non serve: la retorica dell’antimafia, quella che ha consentito la creazione di carriere politiche fatte di partecipazione a dibattiti e cortei da una parte e intoccabilità dall’altra, utile sia a se stessi che ai propri protetti, in un inconfessabile commercio di indulgenze penali. Le tante manifestazioni commemorative e di sensibilizzazione dovrebbero promuovere quei valori che sono all’antitesi della cultura mafiosa: il merito e la corretta competizione, garanzia nei Paesi più sviluppati di progresso economico e civile. Bisogna quindi favorire un ecosistema propizio alla nascita di imprese e all’emancipazione economica mentre si bonifica il tessuto dal riciclaggio di capitali illeciti. I tempi sono maturi anche in Sicilia e la crisi economica è propizia per questi cambiamenti sociali. In tempi di spending review, questa è infine una delle poche attività autofinanziabili da parte dello Stato, senza oneri per il contribuente: basta solo volerlo davvero e non a parole.

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