Il 9 maggio si è tenuta a Firenze The State of The Union, una conferenza che ha visto accademici, politici, business e opinion leader discutere del presente e del futuro dell’Europa. Due i filoni principali affrontati: la legittimità del processo di integrazione europea e il processo di integrazione dei migranti negli stati membri. Una scelta di temi, questa, che può sembrare strana in un momento in cui l’attenzione è concentrata soprattutto sulla crisi economica e finanziaria. Ma nell’Anno Europeo dei Cittadini parlare di democrazia, rappresentanza e integrazione non è affatto casuale.

Il 2008 non è stato soltanto l’anno d’inizio della crisi economica, ma anche quello della recessione demografica. Il peso della popolazione europea nel mondo sta diminuendo (entro il 2050 saremo 45 milioni in meno al netto della migrazione), e il suo invecchiamento ne diminuisce la capacità lavorativa e innovativa. I migranti contribuiscono al ringiovanimento della popolazione, sono contribuenti netti dei nostri sistemi di welfare, stimolano l’innovazione e lavorano in molti settori dove la forza lavoro autoctona non basta.

Nonostante ciò, l’Europa non riesce ad attrarre persone e competenze e fa fatica a proteggere i lavoratori migranti dai rischi di esclusione e povertà inaspriti dalla crisi. La necessità di politiche migratorie coerenti, che pongano l’accento sull’integrazione lavorativa e sociale, si intreccia con il ruolo centrale che l’Europa deve avere nella protezione dei diritti umani sul proprio territorio e nel mondo.

Lunga la lista dei contributi in tal senso alla State of the Union. La neo-ministra degli esteri ed ex commissaria europea Emma Bonino, ha chiesto di riscoprire i valori fondanti dell’Unione, condannando l’aumento di violazioni dei diritti fondamentali alle frontiere europee. La Presidente della Camera Laura Boldrini, citando Antonio Tabucchi, ha sottolineato quanto è strana questa “Unione Europea che, invece che i diritti dell’uomo, privilegia la contabilità”.

La commissaria europea Cecilia Malmström ha denunciato l’attuale frammentazione delle politiche europee sull’asilo: Germania, Francia e Svezia si fanno carico di più della metà dei richiedenti asilo, con un evidente sbilanciamento della solidarietà tra paesi. Giuliano Amato ha poi ricordato che l’artificiosa distinzione tra regolari e irregolari pone le persone fuori dalla legalità e non aumenta la sicurezza: “le politiche di integrazione aumentano la sicurezza molto più della legge penale”.

Alla sua prima uscita internazionale, anche la neo-ministra all’integrazione, Cécile Kyenge. La sua nomina ha scatenato le reazioni di numerosi gruppi razzisti e xenofobi, di giornalisti in cerca di scoop etno-antropologici e di partiti politici che hanno dovuto fare i conti con un dibattito nuovo, aperto e non repressivo, sul tema dell’integrazione. Kyenge ha ripetuto l’importanza di una discussione sul diritto di cittadinanza per i bambini nati in Italia da genitori stranieri e la necessità di trovare “una posizione condivisa in Parlamento”.

Non c’è integrazione senza cittadinanza, infatti, ma i percorsi possibili per il riconoscimento della stessa sono molteplici. Non c’è integrazione senza istruzione, che serve anche a rinforzare l’identità europea. Non c’è integrazione a livello nazionale, infine, se l’Europa non stabilisce criteri condivisi per permettere a milioni di giovani di riconoscersi nel paese e nell’Europa in cui sono nati.

Tutti d’accordo allora? Decisamente no. Ma è comunque importante che, nel giorno in cui si autocelebra, l’Europa abbia scelto di parlare di diritti umani e integrazione.

 

Laura Bartolini e Caterina Francesca Guidi

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